Sistema sanitario a rischio, INAPP: “Personale logoro, stanco e decimato”.

Burnout è dir poco. Il personale medico nel nostro Paese è ben oltre l’orlo della crisi di nervi. Tre operatori su 4 si lamentano per lo sforzo fisico, nove su 10 per la retribuzione e le prospettive di carriera. Quasi tutti per lo sforzo mentale ed emotivo (rispettivamente 97% e 93% dei soggetti). Il dato è preoccupante, anche perché in gioco c’è il nostro sistema sanitario nazionale.

A lanciare l’allarme è l’ultimo policy brief dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) “Invecchiare in sanità”, pubblicato oggi e frutto dell’indagine realizzata con campionamento a valanga, tramite questionario diffuso sui canali social, con una rilevazione rivolta a medici, infermieri e operatori sociosanitari.

Solo pochi mesi fa erano considerati gli eroi della pandemia. Oggi, un po’dimenticati dall’opinione pubblica, sono loro a “dire 33” e il quadro che ne esce è particolarmente critico.

Tra il 2008 e il 2018, a causa soprattutto del blocco del turnover e dei tagli alla spesa sanitaria previsti dai piani di rientro regionali, il personale del Sistema sanitario nazionale si è ridotto di oltre 41mila unità. Questo ha comportato un progressivo aumento dell’età media, che nel 2020 era di circa 51 anni per i medici e 47 per gli infermieri. Come se non bastasse, entro il 2027 si prevede il pensionamento di circa il 28% del personale medico e dell’8% di quello infermieristico. Il peso delle attività si è, dunque, concentrato su un numero ridotto di lavoratori, per di più avanti con gli anni.

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“Il problema della carenza di personale sanitario – afferma Sebastiano Fadda, presidente dell’INAPP – rischia di assumere in Italia dimensioni tali da compromettere sia i livelli di benessere lavorativo degli addetti, già normalmente a rischio di burnout, che la sostenibilità stessa del nostro Servizio Sanitario Nazionale, anche a causa di problemi strutturali non risolti sul piano dei rapporti tra sistema pubblico e operatori privati. L’aumento dell’età media degli operatori e i prossimi pensionamenti, in assenza di un adeguato turnover, rischiano di compromettere l’efficienza dei servizi e la sostenibilità stessa del nostro sistema sanitario nazionale in una fase di progressivo incremento della domanda di servizi di prevenzione, cura e assistenza legato all’aumento del peso della popolazione più anziana”.

Circa il 70% del personale sanitario italiano – si legge ancora nel policy brief – ritiene peggiorati i ritmi di lavoro, il 65% le condizioni economiche e il 45% le opportunità di carriera e di affermazione professionale. La condizione economica è considerata peggiorata maggiormente dai lavoratori delle strutture pubbliche, mentre i cambiamenti nei ritmi e orari di lavoro prevalentemente dai lavoratori delle strutture private.

E su come è visto il proprio futuro professionale le impressioni non sono certo più rosee. Condizioni economiche e ritmi/orari di lavoro sono gli elementi critici anche nelle aspettative degli operatori rispetto all’evoluzione del proprio lavoro nei prossimi cinque anni. Inoltre, oltre il 50% dei rispondenti, senza particolari distinzioni di genere ed età, sembra non intravedere alcuna possibilità di sviluppo professionale, con opportunità di carriera e livello di autonomia decisionale ritenuti immutabili nei prossimi cinque anni.

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Prevale, inoltre, il timore di un aggravio di lavoro per coloro che rimarranno in servizio, con percentuali progressivamente più elevate all’aumentare dell’età e un’incidenza media che sfiora il 76% per il totale degli ultracinquantenni. Lo scenario così dipinto, sia per quanto riguarda la situazione attuale, che per le aspettative nel prossimo futuro, sembra giustificare i risultati dei dati riguardanti le opinioni relative ai tempi di uscita dal lavoro. Circa il 28% del totale, ancora, afferma di essere interessato ad un’eventuale possibilità di ritiro anticipato, anche se ciò significasse una riduzione dell’assegno mensile del 20-30%. Si tratta di una percentuale non trascurabile, se si considera che non sono i lavoratori più anziani, ma i più giovani, evidentemente più preoccupati per l’ulteriore impegno e il peggioramento di alcune condizioni lavorative che prevedono di dover affrontare nel corso di una vita lavorativa giocoforza prolungata.

“Solo dopo aver potenziato gli organici, introdotto nuove politiche di gestione del personale e restituito riconoscimento e valore agli operatori – ha concluso Fadda – sarà possibile coinvolgerli attivamente nel delicato processo di trasformazione del Sistema sanitario nazionale, auspicato da più anni. Il rafforzamento delle risorse, tuttavia, deve essere accompagnato da un rinnovamento della governance del sistema che parta da un chiarimento dei rapporti tra strutture sanitarie pubbliche e operatori privati, realizzando una nuova organizzazione del lavoro e dei servizi nella quale l’innovazione tecnologica e l’age management trovino spazio e supporto adeguati. Questa è la condizione necessaria per superare le sfide poste dalle trasformazioni demografiche, in una prospettiva di sostenibilità dell’occupazione e del sistema sanitario nel suo complesso”.

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Quello dello sviluppo tecnologico, del resto, resta un aspetto delicato. È ampiamente condiviso dal personale sanitario che la scarsa diffusione delle tecnologie sia prevalentemente imputabile a mancati investimenti delle strutture sanitarie (90%), alla mancanza di tempo per la formazione (78%) ed alla strumentazione eccessivamente costosa (75%). A fronte di un limitato uso delle tecnologie e delle difficoltà riscontrate, i partecipanti alla ricerca hanno comunque manifestato convinzione nell’utilizzarle e intenzione di apprendere e aggiornarsi (49% dei medici; 54% degli infermieri; 61% di operatori sociosanitari), nonché nel considerarle indispensabili allo svolgimento del proprio lavoro (21% del totale). Dunque, alla proattività del personale sanitario – si suggerisce nel policy brief – è necessario rispondere con interventi di sistema che consentano agli operatori di interagire efficacemente con le tecnologie e rafforzando uniformemente le infrastrutture sull’intero territorio nazionale, in modo da ridurre i divari già esistenti e scongiurare il rischio di aggravare ulteriormente l’eterogeneità nella fruizione dei servizi di cura.