Sa die de Sa Sardigna. L’invenzione di una festa
Per gentile concessione del Centro per l’Umanistica Digitale dell’Università di Cagliari pubblichiamo l’articolo di Giampaolo Salice, Storico dell’età moderna e Docente di Storia moderna dell’Università di Cagliari, sulle origini della ricorrenza di Sa Die de Sa Sardigna. L’articolo originale è disponibile qui.
Il 28 aprile di ogni anno in Sardegna si celebra Sa Die de sa Sardigna, enfaticamente definita la “Giornata del popolo sardo”. La festa ricorda la sollevazione popolare del 28 aprile 1794 che condusse alla cacciata di (quasi) tutti i piemontesi da Cagliari e dalla Sardegna e all’avvio di un biennio di sconvolgimenti istituzionali e politico-sociali spesso definiti “rivoluzionari”.
La decisione di celebrare questo avvenimento, maturata negli anni Novanta del secolo scorso (L. R. 14/09/1993, n. 44), è stata ispirata da uno schema nazionalistico classico, analogo a quello che ha guidato la conquista del passato da parte del discorso patriottico italiano (ed europeo).
Sa Die è stata così proposta al pubblico come momento di “resistenza” contro lo “straniero”, di sollevazione militare contro “l’occupante”, di liberazione dai suoi soprusi e dalla sua tirannide da parte di un “popolo” o una “nazione” finalmente in armi. Il discorso sul “triennio rivoluzionario sardo” si è inoltre caricato di prospettive repubblicane, democratico-liberali o giacobine, addirittura autonomistiche in senso contemporaneo o indipendentistiche.
Si fa fatica, ancora oggi, a riportare quei fatti al loro corretto contesto sociale, valoriale, politico-istituzionale. Spesso ci si dimentica che il tumulto del 28 aprile trovò la sua spinta generativa nella resistenza vittoriosa con cui i sardi, all’inizio del 1793, respinsero il tentativo francese di occupare la Sardegna. Ci si dimentica, soprattutto, che con quel successo i sardi ributtarono a mare la rivoluzione francese, il suo anticlericalismo repubblicano, il suo antifeudalesimo radicale.
Una “rivoluzione” aristocratica
A guidare e finanziare la resistenza anti-francese furono soprattutto i nobili dello Stamento militare e la Chiesa Cattolica. Sfruttando il prestigio e la forza contrattuale guadagnati battendo i francesi, le caste sarde chiesero al sovrano di ripristinare i propri privilegi erosi da decenni di politiche assolutistiche e riformatrici. Le rivendicazioni delle élite sarde trovarono una formalizzazione nella famose Cinque domande inviate al sovrano.
Quale autonomia?
Domande che puntavano al rafforzamento del feudalesimo, dei privilegi ecclesiastici e delle autonomie cittadine; alla difesa dell’intolleranza religiosa, dei monopoli baronali; alla convocazione del parlamento di antico regime (assise di caste, che in termini di rappresentanza nulla ha a che fare coi nostri parlamenti). Era questa l’autonomia dei nobili. Non un’autonomia dal potere centrale, ma il dovere del re di produrre legislazione nel rispetto dei vincoli imposti da privilegi, ordinamenti e leggi del regno.
Monarchia o repubblica?
In questo scenario, il repubblicanesimo ebbe sempre un ruolo assolutamente marginale. I gruppi filo-francesi, che pure non mancarono, non ebbero mai nessuna possibilità reale di incidere in concreto sui rapporti di forza e sugli equilibri di potere.
Perché nel mondo del 28 aprile l’elemento ideologico di legittimazione decisivo era in modo incontestabile la Monarchia, che, tra le altre cose, era una di quelle leggi fondamentali del regno di Sardegna che con le cinque domande si volevano preservare.
Ecco perché le alleanze anti-feudali formate da diversi villaggi nel nord Sardegna in quegli anni contenevano tutte quante la dichiarazione di piena sottomissione alla monarchia. Lo stesso Giovanni Maria Angioj, giudice regio, possidente fondiario, ricchissimo imprenditore, capo del partito riformatore, poté mettersi a capo di quelle rivendicazioni contadine solo quando e solo perché, dal febbraio 1796, era stato investito dell’autorità dei viceré (alternos).
L’anti-feudalesimo impossibile
Giovanni Maria Angioj cade in disgrazia quando cambia gli obiettivi della sua missione nel Nord Sardegna. Vi era stato spedito dalle élite cagliaritane nell’inverno del ’96 per sedare la ribelle Sassari e pacificare il Logudoro, ma lui si fece convincere ad abolire il feudalesimo. È una decisione inaccettabile a Cagliari: non solo per lo Stamento dei baroni, ma anche per fette consistenti delle nuove borghesie “patriottiche”, i cui destini privati e familiari erano intimamente connessi alle strutture feudali.
Fu davvero una sconfitta?
La reazione di Cagliari costringe Angioj alla fuga. I contadini che lo avevano sostenuto lo abbandonano: sono disposti a farsi ammazzare per abbattere i baroni, ma non si combatte contro il re. L’esilio di Angioj a Livorno (da dove scriverà delle lettere a Torino per dimostrare la sua fedeltà alla Monarchia) è cartina di tornasole del successo ottenuto dai ceti privilegiati sardi.
Non solo hanno respinto i francesi, non solo hanno eliminato dalla scena politica tutti i sardi che avevano appoggiato le riforme assolutistiche del governo (dal grande riformatore Giuseppe Cossu al “rivoluzionario” Giovanni Maria Angioj), ma hanno condotto la Monarchia su un terreno politico conservatore, anzi restauratore.
Un nuovo patto tra trono e aristocrazie che ripudia i valori assolutistici e illuministici, l’idea cioè di un principe solo al comando, e rilancia con forza la necessità della partecipazione degli aristocratici al processo legislativo e al governo del regno.
Giampaolo Salice