Pagine di Quarantena. Bradbury e l’homo Faber
“Lo stile è la verità. Una volta che hai ben chiaro cosa vuoi dire di te, delle tue paure e della tua vita, quello diventa il tuo stile […]” Questo dice Ray Bradbury, scrittore americano, figura chiave della letteratura fantastica del dopoguerra. Vien da pensare alla verità veicolata da Fahrenheit 451, il romanzo visionario a cui è ricondotto nell’immaginario dei lettori, con la forza dei suoi simboli e dei suoi messaggi, oltre le antologie che raccolgono l’ebbrezza di vita che contraddistingue il suo animo di uomo e scrittore.
Restio a parlare del suo approccio alla scrittura, Bradbury rivela in questo la sua natura di scrittore dell’inconscio e la spontaneità della sua concezione della letteratura che con la sua potenza creatrice si realizza, rinasce dalle sue ceneri come la Fenice e come la salamandra simbolica accende il fuoco – nome dato tra l’altro ai veicoli dei pompieri inviati per appiccarlo -, ad esso sopravvive e lo spegne, sempre viva, inestinguibile. E perché di quei meccanismi voglia mantenere i segreti è prima di tutto per ignorarli lui stesso allo scopo di produrre sempre la sua verità integra, genuina e lasciarla sgorgare liberamente dalla penna. È un trucco di prestigio, secondo una sua stessa metafora e dunque, secondo la sua volontà di mantenerne il mistero, in cui persino il prestigiatore deve subire l’intrigante illusione, perché funzioni. Scrivere è per lui secondo le sue stesse parole “la gioia e la pazzia più squisita della mia vita”.
Il suo esordio si colloca negli anni Quaranta in California durante i quali compare in varie riviste, per esempio la rivista Thrilling Wonder Stories e Planet Stories. Procedendo a ritroso, quando il padre a causa della Grande Depressione nel 1934 si trasferisce a Los Angeles per cercare lavoro, Bradbury conosce gli appassionati di fantascienza, passione fremente in lui già da bambino. E tale passione investe anche grandi autori, tra cui ad esempio, molto amato dall’autore fu Poe – autore che tra le altre cose lo attirò probabilmente per il lato psicologico, implicazioni a cui Bradbury rivolge la debita attenzione -, Wolfe, Shaw, per citarne solo alcuni e in questo apprendimento da lui affrontato con entusiasmo si evince nelle sue opere l’esistenza di un dialogo simbolicamente elaborato con la tradizione.
Fu apprezzato da Aldous Huxley, il celebre scrittore de Il mondo nuovo, e non a caso: Fahrenheit 451, il cui titolo fa riferimento alla temperatura a cui brucia la carta, è un’opera che nella sua poesia e incisività ha avuto un riscontro profetico e ha lasciato nelle menti dei lettori immagini emblematiche e potenti, come in altre opere naturalmente. Faccio riferimento a Cronache marziane, in cui le preoccupazioni e le emozioni umane vengono trasposte su Marte in cui plasma scenari umani.
In questo, Bradbury vede gran parte del potenziale della fantascienza come genere e lo ritiene capace di ritrarre alcune trasformazioni all’interno della società che talvolta la narrativa tradizionale non riesce a cogliere. Infatti, dall’intervista perduta commissionata dalla rivista ‹‹Paris Review›› svoltasi nel 1976 la fantascienza è da lui descritta come ‹‹arte del possibile, mai dell’impossibile›› e addirittura ‹‹l’arte dell’ovvio››. Laddove si creino degli ostacoli nella narrativa tradizionale, in quella fantastica questi freni sono arginabili attraverso ‹‹una storia piena di suspense che racchiude la verità che vuoi esporre››, che è in questo caso specifico Fahrenheit 451, tramite cui è possibile trasmettere un’idea, una grande verità circondata dalle piccole verità, parafrasando le parole dell’autore. A Bradbury premono ‹‹soprattutto le idee›› e crede che la letteratura abbia un dovere sociale indiretto che operi di riflesso.
Tornando a Fahrenheit 451 romanzo pubblicato nella rivista Galaxy nel 1951 e poi in volume nel 1953, si tratta di una distopia in cui i pompieri non hanno il compito di spegnere gli incendi ma di bruciare i libri, in un mondo in cui detenerne il possesso e leggerli è reato. Il capitano Beatty, il capo della squadra dei pompieri in cui lavora Montag, il protagonista, descrive in questo modo il fuoco: ‹‹Il fuoco è luce e soprattutto purificazione››. Dall’intero discorso del capitano è immediato intendere da cosa purifichi la società.
Ma ecco che nel titolo della prima parte compare l’immagine del fuoco e quella simbolica della salamandra, un anfibio a cui nel corso della storia si sono associate erroneamente proprietà ad essa in realtà incompatibili biologicamente, tra cui che potesse sopravvivere arsa dalle fiamme, che fosse in grado di suscitarle e di spegnerle. Ma simbolicamente ha avuto una lunga storia ed è eloquente che venga scelta dall’autore in questa prima parte. A questa scelta sono state date varie spiegazioni, ma rimane concettualmente quanto esposto dal capitano, seppure in una veste opposta. Il fuoco è purificatore. Ma, si aggiunga, i libri sopravvivono.
Montag inizia ad avere dei dubbi sulla felicità, sulla vita, mostri che la società intende sopire con metodi di massificazione e con un apparente stato di benessere incrollabile. Montag si avvia verso la rigenerazione.
L’umanità stessa verrà associata da un personaggio cardine, il vecchio professore Faber, alla Fenice, capace di rinascere dalle stesse ceneri ed emergere dalle fiamme purificatrici ma con una capacità imprescindibile, di cui il mitico animale è privo, la memoria. Grazie ad essa, possiamo infatti ad ogni generazione essere coscienti degli errori commessi e cercare di evitarli, in una memoria che è progredire attraverso una consapevolezza crescente all’insegna di un miglioramento graduale e universalmente vantaggioso.
È impossibile dimenticare personaggi come Clarisse, il cui viso risplende di una luce ‹‹stranamente confortante, […] carezzevole, d’una fiammella di candela›› capace di rischiarare l’animo di Montag e risvegliarlo dal torpore, alla volta della chiarezza.
Splendida è la trasposizione cinematografica di Truffaut, considerata dall’autore stesso eccellente, come attestano le sue parole: ‹‹Ha colto l’essenza, che è tutto.››. Qui Truffaut decide di inserire un’alterazione strutturale a livello di trama: darà nuova vita al personaggio di Clarisse che invece di passare il testimone a Faber rimarrà a tener Montag desto e sarà parte trainante della vicenda, in una proiezione futura della Clarisse che conosciamo dal romanzo.
Un altro dettaglio curioso è il cammeo indiretto di Bradbury nella presenza di un ragazzo che sarà il libro Cronache Marziane. E Montag sarà una delle più conosciute raccolte di Poe, l’amato Poe di Bradbury.
Non si tratta di ribadire quale atto terribile sia bruciare i libri né il fatto che negli archivi e nelle biblioteche sia racchiusa l’identità e la storia di popoli, individui, società, nella materializzazione di testimonianze culturali, cosa che non sfuggì alle passate epoche storiche che li hanno resi bersagli di distruzione allo scopo di colpire il cuore pulsante di un popolo o una nazione, in una lesione che colpisce tuttavia il mondo intero, poiché questo in tanti roghi di generazioni dovremo averlo appreso.
Ed è ora alla seconda parte del romanzo che faccio appello, all’immagine del crivello e della sabbia del titolo: nel sovraccarico di informazioni con cui veniamo martellati, nel fiaccarsi delle nostre capacità di memoria e assunzione consapevole delle stesse, nel percepire che la ‹‹sabbia›› attraversa il ‹‹crivello›› senza lasciare traccia, senza trattenere nulla, lasciando le nostri menti inerti in un sopore sempre più anestetico.
Oggi i libri possono indirizzarci ad assumere noi in primis la funzione svolta nel romanzo dagli uomini-libro, una delle immagini più suggestive del libro: oltre il trasferimento dalla memoria scritta alla memoria personificata si tratterebbe di intensificare le nostre facoltà umane, nell’auspicarsi dello stesso esito, partendo dalla nostra personale e collettiva rinascita.
Ciò è necessario per non dissolverci e poter dare un mezzo adeguato alle nostre voci, nello sviluppo di un senso critico. Dobbiamo essere per questa via quello che il nome del vecchio, uno dei personaggi chiave sopracitati, evocazione emblematica e ora doverosa, rivela: faber, che in latino significa Artefice. Faber è artefice e approdo della rigenerazione di Montag, laddove si realizza un percorso cominciato da Clarisse, per lui primo stimolo e inizio. Nella versione cinematografica, Faber compare in una sequenza breve e sospesa, in un colloquio muto che tramite la restrizione dell’inquadratura sulla metà di schermo che include esclusivamente i due personaggi, si concentra su Montag e il vecchio professore. E se parlasse forse ci inviterebbe, dal canto della sua posizione discosta ma essenziale, a riprendere possesso delle nostre sorti, diventando reali artefici del nostro destino.
Giulia Pinna