L’indagine sulla discriminazione lavorativa verso le persone della comunità LGBTQI+.

L’Istat e l’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), hanno presentato i principali risultati della rilevazione sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBTQI+ (in unione civile o già in unione) in Italia.

La rilevazione, condotta nel 2020-2021, è stata rivolta alle oltre 21 mila persone residenti in Italia che al primo gennaio 2020 risultavano in unione civile o già unite civilmente.

Sono oltre 20 mila, pari al 95,2% del totale, le persone in unione civile o già in unione che vivono in Italia e dichiarano un orientamento omosessuale o bisessuale. Per il restante 4,8%, lo 0,2% dichiara un orientamento asessuale, l’1,3% un altro orientamento, la quota restante preferisce non rispondere.

Tra quanti dichiarano un orientamento omosessuale o bisessuale, il 65,2% è gay, il 28,9% è rappresentato da lesbiche, il 4,2% da donne bisessuali e l’1,7% da uomini bisessuali1. Questo segmento di popolazione è caratterizzato da una quasi totalità di cittadini italiani, una chiara maggioranza di uomini (66,9%), una quota rilevante di persone di età matura (il 43,6% ha 50 anni e oltre) e una più diffusa concentrazione nel Nord del Paese (61,2%). Emerge un profilo diverso da quello delle persone sposate che si contraddistinguono per una quota più elevata di giovani (54,4% di 18-34enni) e un livello di istruzione mediamente più basso (il 61,3% ha conseguito al più il diploma contro il 74,2% delle persone in unione o già in unione).

Nella componente femminile è più rilevante sia la quota di persone con cittadinanza italiana (95,9%, contro il 90,4% osservato nella componente maschile), sia quella di chi vive nel Centro-nord del paese (90,4% contro l’87% degli uomini). Le donne, che in media sono più giovani (il 20,2% ha meno di 35 anni, contro l’11,9% degli uomini), vivono più spesso, oltre che con la partner a cui sono unite, anche con figli (il 18,9% delle lesbiche, il 23,7% tra le donne bisessuali, contro valori irrisori per i corrispettivi di sesso maschile). Nel complesso, l’8,4% ha figli conviventi o non conviventi (il 19,9% tra le lesbiche e il 26% tra le donne bisessuali, contro valori prossimi al 2% per gli uomini); l’incidenza scende al 7,7% se si considerano solo i figli minori.

Le persone in unione civile o già in unione, omosessuali e bisessuali, che vivono in Italia presentano un livello di istruzione piuttosto elevato: il 38,8% ha conseguito almeno la laurea, con una quota leggermente più alta tra le donne (39,4%), contro un valore pari al 15,3% per il complesso della popolazione di 15 anni e più residente in Italia. Nel complesso giudicano buona la propria condizione economica: con riferimento ai 12 mesi precedenti l’intervista sono quasi sette su dieci le persone che considerano adeguate le risorse economiche della famiglia (insieme delle persone con cui si vive).

Quasi la metà delle persone omosessuali e bisessuali intervistate riferisce di essersi unite civilmente perché “l’unione civile garantisce alcuni diritti” (48,9%), mentre più di un terzo indica come motivo principale: “l’unione mi è sembrata la naturale evoluzione del nostro rapporto” (36,5%). Seguono con valori più modesti i motivi: “per rivendicare la legittimità delle unioni tra persone dello stesso sesso” (7,2%) e “per ufficializzare il nostro rapporto in famiglia, sul lavoro, etc. (4,6%). Il 9% ha contratto l’unione (o altro istituto analogo) all’estero e ha successivamente effettuato la trascrizione in Italia.

Nella quasi totalità dei casi la famiglia di origine e gli amici delle persone in unione civile o già in unione è a conoscenza dell’attuale orientamento sessuale, ma per alcuni degli intervistati la decisione di renderlo noto (coming out) ha generato una reazione negativa da parte dei genitori. La madre ha mostrato ostilità o rifiuto in più di un quinto dei casi (21,8%), in misura maggiore per le donne (28,8% a fronte del 18,1% degli uomini). Una quota appena meno elevata riguarda la reazione negativa dei padri (19,8%), con un’incidenza superiore per gli uomini (20,4% contro 18,7%). Quando il figlio o la figlia si è unito/a civilmente, la madre e il padre non hanno accolto il partner come parte della famiglia, rispettivamente, nel 4,8% e nel 6,4% dei casi.

La popolazione delle persone in unione civile o che lo sono state in passato, omosessuali e bisessuali, che vive in Italia si caratterizza per un’elevata partecipazione al mercato del lavoro. In ragione del livello di istruzione elevato e del profilo maturo, la stragrande maggioranza è occupata (77%) o lo è stata in passato (22,5 %), solo una quota irrisoria non ha mai lavorato (0,5%). Le differenze che si osservano tra uomini e donne sono in parte riconducibili alla diversa composizione per età, ma anche allo svantaggio di genere diffuso nel mercato del lavoro italiano. La percentuale di coloro che, al momento della rilevazione, non risultano occupati, ma lo sono stati in passato, è superiore tra gli uomini (il 25,6% contro il 16,3%), più spesso in pensione, di vecchiaia o anzianità (50,6% tra gli uomini e 36,1% tra le donne).

Una donna ex-occupata su cinque riferisce la difficoltà a trovare lavoro, contro il 15,3% degli uomini nella stessa condizione. Per le donne che hanno lavorato in passato incidono in maniera rilevante anche i motivi familiari, indicati dal 10,9%, contro il 4,8% degli uomini nella stessa situazione. Una quota consistente di intervista ha segnalato difficoltà legate ad altre motivazioni (12,2%), tra cui motivi di salute e gli effetti della pandemia.

Il lavoro dipendente è il tipo di attività lavorativa prevalente tra gli occupati ed ex-occupati (con una quota superiore tra le donne), nell’ambito del settore privato nel 68,4% dei casi. Anche in virtù del profilo maturo della popolazione considerata, in circa nove casi su dieci i dipendenti o ex-dipendenti hanno una posizione stabile, potendo contare, adesso o in passato, su un contratto a tempo indeterminato, con una quota di lavoro a termine superiore tra le donne.

Il 27,1% degli occupati ed ex-occupati svolge o ha svolto come ultima occupazione in Italia un’attività lavorativa indipendente. Le donne più spesso rivestono la posizione di coadiuvante nell’azienda di un familiare e socio di cooperativa, gli uomini quella di imprenditore e lavoratore in proprio.

La tipologia di lavoro indipendente più diffusa è la libera professione (11,3%) con un’incidenza di poco superiore tra gli uomini. Solamente l’1,8% degli autonomi o ex-autonomi (imprenditori, liberi professionisti, lavoratori in proprio) dichiara di svolgere o di aver svolto questo tipo di lavoro perché come lavoratore dipendente avrebbe avuto problemi legati al proprio orientamento sessuale.

Nel complesso le persone in unione civile o già in unione omosessuali e bisessuali sono maggiormente impiegate nel terziario (sanità e assistenza sociale, servizi di alloggio e ristorazione e altri servizi) dove si colloca circa una persona occupata o ex-occupata su due. La componente femminile è più presente nei settori “sanità e assistenza sociale” e “altri servizi”, gli uomini nel “commercio all’ingrosso e al dettaglio, riparazione di auto e moto” e “attività manifatturiere, riparazione manutenzione e installazione di macchine e apparecchiature”.

Circa la metà degli occupati ed ex-occupati svolge o ha svolto una professione ad alta e media qualifica (attività organizzativa, tecnica, intellettuale, scientifica o artistica ad elevata specializzazione e gestione di impresa o dirigenza di strutture organizzative complesse pubbliche o private).

LEGGI ANCHE:  Aumentano i positivi in Sardegna.

Tuttavia, le donne svolgono o hanno svolto in misura maggiore, rispetto agli uomini, lavori esecutivi d’ufficio e lavori operai o di servizio non qualificato (rispettivamente il 5,6% contro il 3,8%; il 16,9% contro il 13,3%), mentre gli uomini sono o sono stati maggiormente impegnati in cariche dirigenziali come la gestione di un’impresa o la dirigenza di strutture organizzative complesse pubbliche o private (il 25,6% a fronte del 19,7% tra le donne).

La stragrande maggioranza delle persone omosessuali o bisessuali (in unione civile o già in unione), occupate attualmente o in passato, dichiara che il proprio orientamento sessuale è o era noto almeno a una parte delle persone del proprio ambiente lavorativo (92,5%), con un’incidenza minore tra le persone bisessuali (l’86,2%, contro il 92,9% degli omosessuali).

Più di frequente, nell’attuale o ultimo lavoro sono o ne erano a conoscenza i colleghi di pari grado (84,5%), seguiti dal datore di lavoro o superiori (76,7%) e dai dipendenti o persone di grado inferiore (73,2%). Tuttavia, il 32,2% afferma che sia capitato che un collega, una persona di grado superiore o inferiore, un cliente o un’altra persona dell’ambiente lavorativo rivelasse ad altri il suo orientamento sessuale senza aver dato il consenso.

Una persona su cinque ritiene che il proprio orientamento sessuale l’abbia svantaggiata nel corso della vita lavorativa in termini di avanzamenti di carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento delle proprie capacità professionali. Nella valutazione degli intervistati, è invece meno diffuso riferire uno svantaggio riguardo al livello del reddito/retribuzione lavorativa (circa una persona occupata o ex-occupata su dieci), ma è comunque più frequente che ciò avvenga tra gli omosessuali rispetto alle persone bisessuali e tra gli uomini rispetto alle donne.

In complesso, il 26% delle persone occupate o ex-occupate dichiara che essere omosessuale o bisessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione); tale situazione viene segnalata in misura maggiore dagli uomini (26,8% contro 24,6% delle donne), dalle persone omosessuali (26,4% contro 20,2% dei bisessuali), dalle fasce di età più giovani (28,7% contro 23,4% degli ultra 50enni), dagli stranieri (31,3%, contro 25,7% dei cittadini italiani), dalle persone con titolo di studio più elevato (27,7% dei laureati contro il 43,7% delle persone con al più la licenza media inferiore), da quanti vivono nel Nord (26,5%, contro 24% di quelli nel Mezzogiorno) e da chi svolge o ha svolto un lavoro dipendente (26,9%, contro 23,6%% degli indipendenti).

Tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti lo svantaggio legato al proprio orientamento sessuale aumenta al crescere del numero di persone occupate nell’azienda/ente in cui si lavora, mentre si riduce all’aumentare degli anni di lavoro svolti nel medesimo posto di lavoro. Il fenomeno viene inoltre segnalato maggiormente tra i lavoratori o ex-lavoratori dipendenti del privato e in quei contesti dove è/era presente una figura di diversity manager, in ragione di una più diffusa cultura e consapevolezza su tali temi.

Il 40,3% riferisce, in relazione all’attuale/ultimo lavoro svolto1, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale, con un’incidenza più alta tra le donne (41,5% contro 39,7% tra gli uomini) e tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti (41,1% contro 38,1% degli indipendenti o ex-indipendenti).

Inoltre, una persona su cinque afferma di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale. Sono gli uomini a segnalare maggiormente tale comportamento (20,9% contro 18,3% tra le donne), come anche l’aver evitato di partecipare a eventi aziendali o altri eventi sociali collegati all’attività lavorativa (13,1%, contro 11,8%). In entrambi i casi l’incidenza del fenomeno è più alta tra i dipendenti o ex-dipendenti.

Le micro-aggressioni sono “brevi interscambi quotidiani che inviano messaggi denigratori ad alcuni individui in quanto facenti parte di un gruppo, insulti sottili (verbali, non verbali, e/o visivi), diretti alle persone spesso in modo automatico o inconscio” (Sue, 2010) che possono avere effetti sullo stato di benessere psico-fisico di una persona. Secondo l’indagine, circa sei persone su dieci1 hanno sperimentato almeno una forma di micro-aggressione in ambito lavorativo legata all’orientamento sessuale (tra quelle rilevate).

L’incidenza del fenomeno è simile per uomini e donne, ma le micro-aggressioni vengono riportate con maggiore frequenza dalle persone omosessuali rispetto a quelle bisessuali (62% a fronte del 58,9%). Inoltre, il problema è segnalato più spesso dagli italiani (63% contro 44,1% degli stranieri) e dalle persone con un titolo di studio medio-alto (il 62,7% di chi ha almeno la laurea contro il 58,9% di quanti posseggono al massimo la licenza media). L’incidenza è inoltre più elevata tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti (62,3% contro 60,3% degli indipendenti o ex-indipendenti).

Tra coloro che hanno dichiarato di aver vissuto almeno una micro-aggressione quasi la totalità afferma di aver sentito qualcuno “definire una persona come frocio o usare in modo dispregiativo le espressioni lesbica, è da gay o simili” (oltre 9 su dieci), ma anche, seppure in misura minore, è capitato “che le si chiedesse della sua vita sessuale” (38,7%). Gli uomini riportano con frequenza superiore la modalità “è capitato che i suoi modi di essere (gesticolare, parlare, vestire) venissero imitati per prendersi gioco di lei” (21,5% a fronte del 9,3% tra le donne) e “che si desse per scontata la sua disponibilità sessuale” (15,6% contro 10,2%). I lavoratori indipendenti sono maggiormente esposti a messaggi o considerazioni inerenti la sfera sessuale. Circa una persona su due ha sperimentato più di un tipo di micro-aggressione (il 41,5% ne segnala due o tre); nel 66,7% dei casi l’ultima esperienza è avvenuta negli ultimi tre anni.

Con riferimento all’ultima esperienza di micro-aggressione vissuta, il 57,2% (di chi ha dichiarato di averne subita almeno una), riporta che i responsabili di tali eventi sono colleghi di pari grado; seguono clienti, fornitori, consulenti e altre persone dell’ambiente lavorativo. Nel 40,3% dei casi la persona non ha fatto nulla in risposta all’accaduto. Il 28,2% si è confrontato immediatamente con il/la responsabile. A seguito di tale episodio il 6,9% ha pensato seriamente di abbandonare il lavoro, ma non lo ha fatto, il 2,5% lo ha lasciato.

Tra le persone omosessuali e bisessuali in unione civile o già in unione che vivono in Italia, una su tre dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione, non necessariamente legato all’orientamento sessuale (es. origini straniere, aspetto esteriore, problemi di salute, convinzioni religiose o idee politiche, genere, etc.) mentre cercava lavoro. La percentuale risulta più alta tra le donne (in 4 casi su dieci, sia tra le lesbiche che tra le bisessuali). Il fenomeno è meno diffuso tra i gay (28,2%), ma anche in ragione dell’età mediamente più elevata di questo gruppo. A riportare maggiormente comportamenti discriminatori sono infatti le persone più giovani (la metà delle persone tra 18-34 anni), gli stranieri e le persone con un titolo di studio più basso.

Il 57,7% di quanti hanno indicato di aver subito almeno un evento di discriminazione nella ricerca di un’occupazione (61,1% tra le donne, 64% tra le bisessuali) riferisce di aver ricevuto un’offerta di lavoro senza contratto in relazione a caratteristiche della persona non rilevanti ai fini dell’attività lavorativa da svolgere. Inoltre, tra gli episodi più frequenti, è riportato non aver ottenuto il lavoro pur avendo requisiti simili o equiparabili ad altri candidati (48,8%). I dati mostrano alcune differenze riconducibili soprattutto ai divari di genere nell’accesso al lavoro: tra le donne il secondo evento più frequente è la proposta di una retribuzione inferiore a quella prevista o concessa ad altri per le stesse mansioni, situazione indicata da circa la metà delle rispondenti.

LEGGI ANCHE:  Oltre 2mila euro per uno smartphone per il DG, Manca: "Spesa esorbitante".

Nel complesso, tra quanti hanno indicato almeno un evento, il 60,8% dichiara di aver sperimentato diversi tipi di eventi discriminatori; il 6,1% tutte le cinque casistiche previste dal questionario. Con riferimento all’ultimo evento accaduto (nel 34% dei casi verificatosi negli ultimi 3 anni), circa 4 persone su dieci non riconducono l’evento a una caratteristica in particolare, come l’orientamento sessuale, l’età o il genere di appartenenza, ecc., non hanno saputo indicarla o preferiscono non rispondere. Il restante 43,4% ha indicato un solo fattore, l’11,6% due, il 4,8% tre o più. Il 23,2% dichiara di essere stato trattato meno bene degli altri per motivi legati al proprio orientamento sessuale, segnalato in misura minore dalle donne (15,4% e in particolare dalle bisessuali) che invece indicano come motivo più ricorrente il proprio genere (44,7%).

La seconda motivazione di discriminazione segnalata è l’età (15,8%) con una quota simile tra donne e uomini. In particolare, sono i più giovani a indicare con più frequenza tale fattore (il 21,5% dei 18-34enni). Inoltre, nel confronto con le altre fasce di età, i giovani riferiscono più spesso caratteristiche legate all’aspetto esteriore, all’origine straniera, a problemi di salute e invalidità.

Considerando invece comportamenti di auto discriminazione specificatamente legati al proprio orientamento sessuale, il 6,3% delle persone omosessuali e bisessuali in unione civile o già in unione dichiara di non essersi presentato a un colloquio di lavoro o di non aver presentato domanda per un lavoro, pur avendone i requisiti, perché pensava non sarebbe stato preso a causa del proprio orientamento. La quota è doppia (12,6%) per chi afferma di non essersi presentato perché pensava che l’ambiente di lavoro sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale.

La ricerca di lavoro si conferma quindi una fase critica per i più giovani che segnalano maggiormente esperienze di discriminazione. A spiegare questa circostanza contribuiscono sicuramente diversi fattori legati alle differenze di contesto e l’aver vissuto il passaggio scuola/lavoro in un tempo più recente.

D’altra parte, quasi una persona omosessuale o bisessuale su due (46,9%) dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione a scuola/università, a conferma della delicata fase di formazione che precede l’inserimento nel mondo del lavoro e i possibili effetti che questa può avere sui successivi percorsi di studio e lavoro. Il fenomeno viene indicato maggiormente dagli uomini, dalle persone omosessuali rispetto ai bisessuali, dai più giovani (il 61,6% dei 18-34enni) e da coloro con un livello di istruzione più alto. Con riferimento all’ultimo evento, che per oltre la metà è avvenuto alle scuole superiori, l’orientamento sessuale viene indicato dal 64,5% tra i motivi per cui si ritiene di essere stati discriminati. Seguono nella graduatoria delle caratteristiche l’aspetto esteriore (30,7%), che tra i più giovani arriva al 40,2%, e infine gli altri motivi (9,7%).

Lavoro dipendente. Il 34,5% dei dipendenti o ex-dipendenti dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione tra quelli rilevati1 durante lo svolgimento del proprio lavoro: l’incidenza è superiore tra le donne (36,8% contro 33,4% degli uomini) e tra i bisessuali (34,4% contro 37,1% delle persone omosessuali).

L’incidenza è più elevata tra i bisessuali maschi in confronto agli altri profili, tra le persone più giovani, gli stranieri e tra le persone con un titolo di studio basso. Il fenomeno viene riportato maggiormente da chi al momento non è occupato (39,7%) rispetto agli occupati.

Considerando le caratteristiche del lavoro attualmente svolto (per gli occupati) o dell’ultimo lavoro (per gli ex-occupati), le persone con un’occupazione a termine riportano in misura maggiore episodi di discriminazione (40,1%) e in generale chi lavora in contesti lavorativi di grandi dimensioni. Di contro, coloro che lavorano o lavoravano nel settore pubblico sembrano essere più protetti, riferendo tali esperienze in misura minore. Da notare come il 48,5% dei dipendenti che ha segnalato almeno un evento ne abbia indicati più di due tipi, percentuale che sale al 61,2% tra gli ex-dipendenti.

Sia tra i dipendenti che tra gli ex dipendenti, le situazioni di discriminazione più frequentemente riportate sono “non aver avuto promozioni o avanzamenti di carriera, aumenti di stipendio o premi che meritava” (il 48,8% dei dipendenti che hanno indicato almeno un evento e il 50,9% degli ex-dipendenti) e “vedere i risultati raggiunti o le proprie capacità sminuite o valutate negativamente da superiori, colleghi di pari grado o persone di grado inferiore” (il 47% dei dipendenti e il 54,2% degli ex-dipendenti).

Le donne indicano in misura maggiore degli uomini l’aver ricevuto una retribuzione e mansioni inferiori, vedere rifiutati congedi, permessi (parentali o di altra natura) o promozioni; gli uomini dipendenti segnalano con più frequenza delle donne la cassa integrazione e il mancato rinnovo di contratti mentre tra gli ex-dipendenti il pre-pensionamento e il vedere le proprie capacità sminuite.

Considerando solo gli ex-dipendenti, la quota di quanti ritengono di essere stati licenziati e/o messi in condizione di dare le dimissioni è del 18,7% rispetto al totale di coloro che non lavorano ma nell’ultimo lavoro svolto erano occupati come dipendenti.

Con riferimento all’ultimo evento accaduto di discriminazione nel lavoro dipendente (nel 63,5% dei casi verificatosi negli ultimi tre anni), il 31% dei dipendenti o ex-dipendenti che hanno dichiarato di aver subito almeno un evento discriminatorio indica l’orientamento sessuale come motivo in base al quale si ritiene di essere stati trattati meno favorevolmente di altri; segue “perché donna” indicato dal 37,8% delle rispondenti. La grande maggioranza ha segnalato una sola caratteristica, il 27,3% più di una.

Circa 4 persone su 10 non hanno indicato una caratteristica in particolare o hanno preferito non rispondere. Il 10,2% non ha parlato con nessuno dell’ultimo evento accaduto in ambito lavorativo né al di fuori dell’ambiente di lavoro. Tra quanti invece hanno riferito a qualcuno l’esperienza di discriminazione vissuta, il 17,4% ha intrapreso una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di azione).

Clima ostile e aggressioni in ambito lavorativo. Circa una persona su cinque, occupata o ex-occupata in Italia, dichiara di aver vissuto un clima ostile o un’aggressione nel proprio ambiente di lavoro, con un’incidenza leggermente più elevata tra le donne (21,5% contro 20,4%), sia lesbiche che bisessuali, tra i giovani (26,7%), gli stranieri o apolidi (24,7%) e le persone che vivono nel Mezzogiorno (22,6%).

Il fenomeno è più diffuso tra i dipendenti o ex-dipendenti e riguarda più spesso l’essere stati calunniati, derisi o aver subito scherzi pesanti (46,5% di quanti hanno segnalato di aver sperimentato almeno un evento di clima ostile o aggressione), l’essere stati umiliati o presi a parolacce (43,9%). L’episodio maggiormente segnalato dagli indipendenti (o ex-indipendenti) è invece l’aver ricevuto offese, incluse quelle di tipo sessuale (45,6%). A prescindere dal tipo di occupazione, sono le donne a subire tali offese più di frequente (43,8% contro 30,3% degli uomini) mentre tra gli uomini è molto superiore la quota di quanti sono stati calunniati, derisi o che hanno subito scherzi pesanti. Inoltre il 23,1% delle persone omosessuali o bisessuali (in unione civile o già in unione) dichiara, con riferimento all’ultimo lavoro svolto, di essere stato minacciato in forma verbale o scritta, e il 5,3% di aver subito un’aggressione fisica, con incidenze più alte tra gli uomini. Più della metà dei rispondenti ha subito più episodi tra quelli rilevati.

LEGGI ANCHE:  Giunta regionale: 18 milioni per stagionali e colf.

La percentuale di coloro che dichiarano di aver subito, nell’ambito dell’attuale o ultimo lavoro un’aggressione fisica, non necessariamente ricondotta dal rispondente a motivi legati all’orientamento sessuale, da persone dell’ambiente lavorativo è dell’1,1% sul totale degli occupati o ex-occupati.

Con riferimento all’ultimo evento accaduto (nel 57,2% dei casi avvenuto negli ultimi 3 anni), le caratteristiche indicate maggiormente in base alle quali si ritiene di essere stati trattati meno favorevolmente da altri sono l’orientamento sessuale (66,7%) e l’essere donna (43,5% delle donne). Circa il 30% di coloro che hanno indicato almeno una caratteristica ha segnalato più di un fattore.

Il 10,4% degli occupati ed ex-occupati che hanno dichiarato almeno un evento non ha parlato con nessuno dell’ultimo episodio accaduto in ambito lavorativo né al di fuori dell’ambiente di lavoro. I motivi più indicati sono “sarebbe stato inutile, mi sarei sentito a disagio” e “non era abbastanza importante o grave”. Tra quanti invece hanno riferito a qualcuno dell’ultima esperienza subita, circa una persona su quattro ha intrapreso una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di azione).

A coloro che hanno figli (biologici e non) è capitato di essere evitato dai genitori di altri bambini a causa del proprio orientamento sessuale (12,4%) e ai figli stessi di essere derisi (11,3%) o esclusi (6,5%) da altri bambini.

È pari al 17,0% la quota di occupati o ex occupati che, oltre a ritenere di essere stati svantaggiati nel corso della propria vita lavorativa per l’orientamento sessuale, pensano di essere stati discriminati in almeno uno degli altri ambiti di vita quotidiana (il 12,1% delle donne bisessuali e il 17,7% delle persone gay), con un’incidenza più alta tra i giovani (21,5% tra i 18-34enni).

Oltre il 68,2% ha evitato di tenersi per mano in pubblico con un partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato; questo comportamento è più comune tra gli uomini (69,7%), sebbene anche per le donne la percentuale sia elevata (65,0%). Anche aver evitato di esprimere il proprio orientamento sessuale per paura di essere aggrediti, minacciati o molestati presenta valori elevati (52,7%), senza particolari differenze tra donne e uomini (rispettivamente il 53,3% e il 52,4%).

Relativamente agli ultimi tre anni, tra le persone in unione civile o già in unione che vivono abitualmente in Italia e si sono definiti omosessuali o bisessuali, l’incidenza di chi ha affermato di aver subito minacce per motivi legati all’orientamento sessuale, escludendo episodi avvenuti in ambito lavorativo, è pari al 4,1% tra gli uomini e al 3,3% tra le donne. Il valore è più elevato tra i più giovani (5,8% dei 18-34enni) e tra le persone che vivono nel Mezzogiorno (4,3%). Le aggressioni violente a causa dell’orientamento sessuale riguardano il 3,2% degli uomini e il 2,9% delle donne. Come per le minacce, il fenomeno è più diffuso tra le persone più giovani (4,5%) e tra coloro che vivono nel Mezzogiorno (3,6%).

Le offese legate all’orientamento sessuale sono ricevute anche via web. Con riferimento agli ultimi tre anni, vengono segnalate dal 14,3% degli uomini e dal 10,4% delle donne. Nel complesso prevalgono offese sui social network, cui seguono quelle in chat.

Percezione della discriminazione. Secondo gran parte delle persone omosessuali e bisessuali (in unione civile o già in unione o ex-unite) che vivono in Italia la discriminazione per motivi legati all’orientamento sessuale è un fenomeno diffuso: il 71,8% ritiene infatti che le persone gay e lesbiche siano molto o abbastanza discriminate; il 22,8% che lo siano poco. La discriminazione viene percepita in misura maggiore dalle donne.

Il 35,5% pensa che a essere maggiormente discriminati siano i gay, il 5,2% che siano le lesbiche. La parte restante afferma che gay e lesbiche sono discriminate in egual misura. Per oltre 6 persone su 10 la situazione è comunque migliorata negli ultimi cinque anni, mentre per il 24,8% non si è verificato alcun cambiamento.

Il 91,1% ritiene che le persone trans o con identità di genere non binaria siano molto o abbastanza discriminate in Italia (rispettivamente 56,3% e 34,7%); la quota di quanti hanno indicato “molto discriminati” è più che doppia rispetto a quella riferita alla diffusione della discriminazione nei confronti delle persone omosessuali (19,7%).

Azioni auspicabili per favorire l’inclusione delle persone LGBTQI+. Con riferimento alle azioni auspicabili in ambito lavorativo, la stragrande maggioranza delle persone omosessuali e bisessuali, in unione civile o già in unione che vivono in Italia ritiene che per favorire l’inclusione delle persone LGBT+ nel mondo del lavoro siano urgenti attività di formazione, sensibilizzazione o campagne sulle diversità LGBT+ da parte delle istituzioni pubbliche (71,7%).

Nella graduatoria delle azioni auspicabili seguono interventi legislativi (52,6%) e azioni di indirizzo da parte dell’Unione europea o altri organismi sovranazionali (44,6%) e, con un notevole distacco, iniziative e interventi degli organismi di parità e tutela preposti (26,2%) e l’impegno sindacale (es. contrattazione, formazione delle rappresentanze sindacali, eventi e iniziative culturali) (22,2%). Meno dell’uno per cento afferma che non è necessaria alcuna azione.

È stato poi richiesto ai rispondenti di indicare quanto fossero favorevoli all’adozione di alcune misure e iniziative in Italia per favorire l’inclusione delle persone LGBT+. Nell’89,1% dei casi sono molto favorevoli all’emanazione di una legge nazionale contro l’omobitransfobia, nell’81,6% a introdurre la stepchild adoption (adozione del figlio del partner), nell’81% a introdurre l’istituto del matrimonio anche tra persone dello stesso sesso (matrimonio egualitario), nel 78% a prevedere l’adozione di minori da parte delle coppie omosessuali in unione civile e nel 74,8% a introdurre maggiori tutele sul lavoro per le persone LGBT+. Il 39,5% dichiara di essere molto favorevole a consentire la gestazione per altri.

La misura maggiormente indicata nel campo aperto della domanda rinvia al piano culturale e richiama l’importanza di realizzare iniziative di educazione, informazione e sensibilizzazione alle tematiche LGBT+ nelle scuole. Tra le altre azioni auspicabili segnalate dai rispondenti compare la procreazione medicalmente assistita e la possibilità di adozione per single ma soprattutto il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali.

Sempre a livello legislativo si segnala la necessità di introdurre leggi più severe per reati omofobi e transfobici. Un’altra questione sollevata riguarda infine l’attivazione di servizi/misure di supporto per persone LGBT+ in condizione di fragilità (es. case riposo, case-famiglia) e per le persone anziane. Alcuni rispondenti hanno richiamato inoltre questioni legate all’esperienza vissuta dalle persone trans (ad esempio richiedendo una semplificazione dell’iter per ottenere il cambio nome svincolato da interventi chirurgici e sgravi per cure sanitarie), intersessuali e dalle persone con identità non binaria.

foto Dedda71 Arcigay Palermo commons wikipedia