La vittoria di Trump: il commento sul voto americano e sui prossimi passi in politica estera.
Come ormai noto, con oltre 300 grandi elettori (312 per l’esattezza), Donald J. Trump, lo scorso 6 novembre è diventato ufficiosamente (bisognerà attendere il 20 gennaio 2025 per l’inizio del mandato) il 47° Presidente degli Stati Uniti d’America, tornando in carica quattro anni dopo aver ricoperto il ruolo di 45° presidente, diventando, insieme a Grover Cleveland, il secondo presidente della storia americana a servire il Paese per due mandati non consecutivi e, infine, a 78 anni, il candidato più anziano mai eletto alla presidenza, battendo il record precedentemente detenuto da Joseph Robinette Biden Jr, meglio noto come Joe Biden e, più recentemente, come il “presidente parcheggiato”.
Una vittoria straordinaria, confermata anche dalla schiacciante vittoria rimediata dai democratici americani con la candidata Kamala Harris (fermatasi a quota 226 grandi elettori, e sotto di oltre 4 milioni di voti), ottenuta contro tutti e contro tutte. Perseguitato da numerose cause legali, sopravvissuto a tue tentativi di assassinio e contro un avversario democratico (ma solo nel nome), altamente organizzato, con un budget elettorale miliardario e una macchina di disinformazione americana sempre prona a ingannare l’opinione pubblica del Paese, il tycoon americano a decisamente ottenuto una vittoria rotondo, per usare un eufemismo.
Il significato della vittoria presidenziale di Trump è stato ulteriormente amplificato dal successo del Partito Repubblicano sui Democratici al Senato, con un margine di 53/46, e alla Camera dei Rappresentanti, con un conteggio di 212 a 200. Ciò significa che i Repubblicani ora hanno il controllo completo sui rami Esecutivo, Legislativo e Giudiziario, consentendo loro di attuare le loro politiche, in particolare a livello nazionale. Tra queste rientrano tagli fiscali per stimolare l’economia, l’imposizione di tariffe sulle importazioni, in particolare dalla Cina ed Unione europea, e la continua costruzione del muro al confine meridionale con il Messico per frenare l’immigrazione illegale.
Economia ed immigrazione da sempre pilastri principali della campagna presidenziale e congressuale repubblicana, con gran parte della retorica di Trump incentrata sul collegamento dei due.
Mentre la campagna repubblicana si è concentrata esclusivamente sulla politica interna, rimangono molte incognite per quanto riguarda le questioni di politica estera, a partire dai conflitti in Ucraina e Medio Oriente.
Nonostante la scarsità di informazioni e piani, alcuni aspetti della politica estera di Trump possono essere anticipati in base al suo precedente mandato presidenziale dal 2016 al 2020.
Harris, dal suo canto, ha dovuto affrontare una sfida quasi insormontabile nel tentativo di contrastare il forte calo dell’indice di gradimento verso la sua stessa amministrazione democratica e la crescente insoddisfazione nei confronti di Biden (apprezzato, chissà perchè, dai democratici da comodino italiani). Per tutto il 2024, Biden e membri di spicco del suo partito erano convinti che meritasse un secondo mandato grazie alla sua impressionante carriera politica. Ma la vice di Biden ci ha messo molta farina del suo sacco per perdere le elezioni, a partire dalle risposte sulle azioni e strategie per il Paese. Come non ricordare l’infelice uscita “non mi viene in mente niente ” riferita sul suo piano di interventi per il Paese a conferma dell’inconsistenza del personaggio politico, resa nota nel corso di una intervista al programma “The View”. Dichiarazione che ha mandato nel panico i suoi consiglieri e ha provocato un’ondata di scherno online da parte dei sostenitori di Trump.
Per il tycoon, invece, la spinta verso l’aumento dell’inflazione e l’escalation voluta dai democratici nei conflitti in Europa e in Medio Oriente, si è rivelata una carta vincente e molti elettori hanno guardato con nostalgia al periodo pre-pandemia, che, sotto Trump, aveva sperimentato una relativa stabilità economica e crescita. Nel corso della campagna, ancora, l’opinione pubblica americana, abituata a un flusso costante di notizie negative su Trump, a partire dalle diverse accuse giudiziarie (91 accuse penali) ha iniziato ad essere affascinata dalle numerose etichette dispregiative create da Trump e dal suo entourage verso la Harris, apostrofata come donna dal “basso QI”, “Que Mala”, “Kamala la Pazza” e “Compagna Kamala”, creando crescente consenso verso l’ex presidente americano e uno scarso interesse per le questioni progressiste (meglio definirle woke) che avevano permeato il Partito Democratico. Programmi, ancora, di scarso interesse per l’elettorato medio e associate a una strategia di estrema sinistra per nulla ascrivibile al “vero spirito americano”.
Kamala, ancora, che ha fatto “acqua da tutte le parti” anche tra i gruppi sociali tradizionalmente fedeli ai democratici, come arabi, musulmani e giovani americani.
Nel frattempo, sotto la democratica amministrazione Biden, gli alti tassi di inflazione (9,59% nel 2022, 4,06% nel 2023 e 3,1% nel 2024) hanno eroso il valore reale del reddito per la stragrande maggioranza dei cittadini, in particolare nelle aree rurali. Trump, quindi, ha puntato semplicemente sul solito isolazionismo, nelle tariffe fisse e negli aggiustamenti fiscali, promettendo di rilanciare l’economia attraverso politiche protezionistiche che ricordavano le pratiche del XIX secolo. Insomma, un vero “calcio in culo” alle politiche economiche del partito dei ricchi americani: quello democratico (come molti “poco usciti” in italia non hanno compreso).
Sul fronte della politica estera, il ritorno trionfale di Trump sembra riaccendere la speranz della pace, dopo anni di amministrazione guerrafondaia democratica e, già in Europa, come ricorda la telefonata di venerdì tra il cancelliere tedesco Olaf Scholz e Vladimir Putin, si iniziano a vedere i primi cambiamenti. D’altro canto, Trump ha pubblicamente criticato la politica dell’amministrazione del presidente Joseph Biden sull’Ucraina, promettendo di spingere per la fine della guerra subito dopo la sua elezione, anche prima di entrare in carica il 20 gennaio dell’anno prossimo. Il presidente ha espresso, ancora, dubbi sulla necessità oggi della NATO (Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico).
Il ritorno dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca potrebbe, inoltre, peggiorare i rapporti con l’Iran, riducendo potenzialmente l’offerta globale e introducendo nuovi rischi geopolitici con la Cina, il più grande importatore di petrolio dell’Iran. Le dure sanzioni americane in programma dall’amministrazione Trump all’Iran, membro dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), potrebbero ancora far salire i prezzi globali del petrolio. Tuttavia, questa situazione potrebbe essere mitigata da altre misure di Trump, come la promozione della produzione petrolifera nazionale, l’imposizione di tariffe alla Cina per frenare le sue attività economiche o l’ammorbidimento delle relazioni con la Russia, consentendo potenzialmente un aumento delle spedizioni di petrolio greggio russo. Un ritorno alla politica di ” massima pressione ” di Trump sull’Iran potrebbe ridurre le esportazioni di petrolio greggio iraniano di un milione di barili al giorno. Trump, sempre rimanendo nel perimetro dei rapporti con la Cina, ha minacciato di imporre tariffe estese sulle importazioni cinesi per proteggere l’industria americana, con tassi che arrivano fino al 60%. In risposta, la Cina potrebbe rafforzare il suo impegno con il blocco BRICS, che mira a diventare un’alternativa orientale al G7 occidentale. La Cina potrebbe anche iniziare a ridurre la sua dipendenza dal dollaro nelle transazioni di petrolio e altre materie prime. Ma, su questo punto, bisognerà attendere i prossimi sviluppi poichè anche Trump è consapevole che una politica di sanzioni così aggressiva rappresenta un serio rischio per il predominio del dollaro come valuta di riserva globale.
L’Unione Europea, dal canto suo, capace di credere esclusivamente nel valore fondamentale del mercato (e poco a quello della pace), ha criticato fin dal principio il tycoon americano, salvo poi lanciarsi nella corsa al comunicato stampa di congratulazioni dopo solo poche ore dal discorso di Trump in Florida. Una antipatia, probabilmente, dovuta al programma protezionistico annunciato da Trump, con la previsione di tasse e tariffe aggiuntive sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, una promessa elettorale che potrebbe minacciare la già fragile economia europea, messa a dura prova da recessione e inflazione. Invece di minacciare contro-tariffe, l’UE sta ora tentando di placare Trump proponendo alcuni accordi commerciali che potrebbero dissuaderlo dall’introdurre i dazi previsti.
Durante la sua campagna elettorale, ancora, Trump ha assunto un tono più calmo e pragmatico verso i conflitti nella Striscia di Gaza e in Libano, in contrasto con il campo democratico, le cui posizioni su varie questioni sono apparse vaghe o confuse, soprattutto per quanto riguarda la questione palestinese, le milizie filo-iraniane in Libano, Yemen e Iraq, così come le relazioni con l’Afghanistan.
A giudicare da quanto fatto nel corso del suo primo mandato, ci si aspetta che il presidente Trump probabilmente darà di nuovo priorità al Medio Oriente. Nel suo primo mandato, Trump ha fatto la storia scegliendo l’Arabia Saudita come sua prima visita all’estero e riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele. Sulla questione palestinese, ha cercato di mediare l’“accordo del secolo ” tra israeliani e palestinesi e ha rafforzato i legami regionali di Israele con alcune nazioni arabe, come gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan, dove sono state stabilite relazioni diplomatiche.
Per quanto riguarda la sua posizione nei confronti dell’attuale Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Trump potrebbe puntare a rimuovere Netanyahu alla prima opportunità. In primo luogo, perchè le politiche di Netanyahu stanno costando troppo all’America: oltre 20 miliardi di aiuti militari, sui quali lo stesso Trump ha espresso la sua riluttanza, affermando che i “continui impegni finanziari in Medio Oriente non sono all’ordine del giorno”. La seconda ragione è il suo desiderio che Israele raggiunga un accordo con l’Arabia Saudita nell’ambito degli Accordi di Abramo del 2020 e aprire, così, alla creazione di uno stato palestinese. Opzione, voluta fina dai tempi della Dichairazione Balfour del 1917, odiata dal sanguinario Netanyahu e dai suoi alleati, pronti, come ricorda la storia, a sostenere la formazione di Hamas contro l’unità dell’autorità palestinese.
foto press.donaldjtrump.com