Italia, quasi un quinto dei giovani è Neet.
Gli indicatori che riguardano il benessere dei giovani in Italia continuano ad essere tra i più bassi in Europa. Una “non nuova notizia” confermata dall’ultimo rapporto annuale dell’Istat sulla condizione del Paese.
Per quanto riguarda l’occupazione giovanile (25-34 anni) risultano occupati nel 2022 quasi 8 giovani su 10 nel Centro-Nord a fronte dei 5 circa nel Mezzogiorno.
Risultano in diminuzione tanto gli individui in età attiva, quanto i più giovani: i 15-64enni scendono a 37 milioni 339mila (sono il 63,4 per cento della popolazione totale), mentre i ragazzi fino a 14 anni sono 7 milioni 334mila (12,5 per cento).
Nel 2041 la popolazione ultraottantenne supererà i 6 milioni; quella degli ultranovantenni arriverà addirittura a 1,4 milioni.
Al 1° gennaio 2023, si legge nel rapporto dell’Istat, si registrano 117,9 anziani di 65 anni e più ogni 100 giovani di 15-34 anni (erano 70,5 al 1° gennaio 2002); nelle aree interne tale rapporto è pari a 122,1 (era 73,6 nel 2002), mentre nelle aree centrali è pari a 116,7 (era 69,5).
Nel 2022 quasi un giovane su due (47,7 per cento dei 18-34 enni) mostra almeno un segnale di deprivazione in uno dei domini chiave del benessere (Istruzione e Lavoro, Coesione sociale, Salute, Benessere soggettivo, Territorio). Di questi giovani oltre 1,6 milioni (pari al 15,5 per cento dei 18-34enni), sono multi-deprivati ovvero mostrano segnali di deprivazione in almeno 2 domini. I livelli di deprivazione e multi-deprivazione sono sistematicamente più alti nella fascia di età 25-34 anni, che risulta la più vulnerabile.
In Italia il meccanismo di trasmissione intergenerazionale della povertà (trappola della povertà) è più intenso che nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea: quasi un terzo degli adulti (25-49 anni) a rischio di povertà proviene da famiglie che, quando erano ragazzi di 14 anni, versavano in una cattiva condizione finanziaria.
La spesa pubblica per istruzione in rapporto al PIL mostra un minore impegno del nostro Paese per questa funzione rispetto alle maggiori economie europee (4,1 per cento del Pil in Italia nel 2021 contro il 5,2 in Francia, il 4,6 in Spagna e il 4,5 in Germania) e in generale rispetto alla media dei paesi Ue27 (4,8 per cento).
L’Italia spende per le prestazioni sociali erogate alle famiglie e ai minori una quota rispetto al Pil molto esigua pari all’1,2 per cento a fronte del 2,5 per cento della Francia e del 3,7 per cento della Germania.
La copertura dei posti disponibili nelle strutture educative per la prima infanzia (0-2 anni) rispetto ai bambini residenti è pari al 28 per cento, ancora inferiore al target europeo del 33 per cento da raggiungere entro il 2010 e molto lontana dal nuovo target del 50 per cento entro il 2030.
Quasi il 5 per cento dei bambini sotto i tre anni frequentano la scuola di infanzia come anticipatari: nonostante queste strutture non prevedano adattamenti del servizio alle esigenze specifiche dei bambini di 2 anni, sono più accessibili per maggiore diffusione sul territorio e costi molto più contenuti rispetto agli asili nido.
La maggior parte degli edifici scolastici statali non dispone di tutte le attestazioni relative ai requisiti di sicurezza: le certificazioni sono detenute da poco meno del 40 per cento dei casi. Riguardo alla raggiungibilità con il trasporto pubblico, si osserva uno svantaggio significativo per il Mezzogiorno: il 14,8 per cento degli edifici considerati risulta poco raggiungibile, sia con scuolabus sia con i collegamenti pubblici (7,8 per cento nel Centro e 5,7 per cento nel Nord).
Poco più di un terzo degli edifici scolastici, statali e non, è privo di barriere fisiche, con una forbice di quasi 8 punti tra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno a sfavore di quest’ultimo. Solo il 16% delle scuole dispone di “segnalazioni visive” per studenti con sordità o ipoacusia, mentre le “mappe a rilievo e i percorsi tattili”, necessari a rendere gli spazi accessibili agli alunni con cecità o ipovisione, sono presenti solo nell’1,5% delle scuole.
Quasi un quinto dei giovani tra 15 e 29 anni in Italia non lavora e non studia (il dato più elevato tra i Paesi Ue dopo la Romania), e fino a un terzo in Sicilia. Favorirne l’ingresso nel sistema formativo e nel mercato del lavoro potrebbe contribuire a ridurre la dissipazione del capitale umano dei giovani, risorsa sempre più scarsa nel prossimo futuro. Gli effetti del calo della popolazione in età da lavoro e dell’invecchiamento sono apprezzabili già oggi. Nonostante il recente andamento favorevole dell’occupazione, l’Italia si colloca ancora all’ultimo posto in ambito europeo e, al tempo stesso, detiene il primato (dopo la Bulgaria) per l’elevata età media degli occupati.
In Italia, nel 2022 quasi un quinto dei giovani tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non è inserito in percorsi di formazione (c.d. Neet). Il tasso italiano di Neet è di oltre 7 punti percentuali superiore a quello medio europeo e, nell’Unione europea, secondo solo alla Romania. Il fenomeno interessa in misura maggiore le ragazze (20,5 per cento) e, soprattutto, i residenti nelle regioni del Mezzogiorno (27,9 per cento) e gli stranieri, che presentano un tasso (28,8 per cento) superiore a quello degli italiani di quasi 11 punti percentuali; questa distanza raddoppia nel caso delle ragazze straniere, per le quali il tasso sfiora il 38 per cento.
Tra il 2012 e il 2022, la quota di giovani tra 25 e 34 anni che hanno conseguito almeno un titolo di studio secondario superiore è cresciuta di 6 punti percentuali, raggiungendo il 78 per cento. Questa rimane però ancora di 7,4 punti al di sotto della media europea (se si considera la classe 25-64 anni, il distacco arriva a 16,5 punti). Permane lo svantaggio del Mezzogiorno (per i giovani 25-34enni la differenza con la media nazionale è di 4,7 punti percentuali al Sud e 9,1 nelle Isole), e la situazione più favorevole per le ragazze, con una quota di oltre 5 punti superiore a quella dei coetanei maschi.
Tra i 18-24enni, nel 2022 l’11,5 per cento ha abbandonato precocemente gli studi, senza conseguire un diploma secondario superiore. In questo caso, il distacco con l’Ue27 in un decennio si è ridotto da 4,7 punti percentuali a soli 1,9. L’incidenza degli abbandoni è superiore di oltre 4 punti tra i maschi rispetto alle femmine e, sul territorio, sfiora il 18 per cento nelle Isole.
Le preoccupazioni ambientali si declinano differentemente per classe di età. I giovani fino a 34 anni sono più sensibili alla perdita della biodiversità (32,1 per cento tra i 14 e i 34 anni contro 20,9 per cento degli over 55), alla distruzione delle foreste (26,2 per cento contro 20,1 per cento) e l’esaurimento delle risorse naturali (24,7 per cento contro 15,9 per cento). Gli ultracinquantenni si dichiarano, invece, più preoccupati dei giovani per il dissesto idrogeologico (26,3 per cento contro 17,0 per cento degli under 35) e l’inquinamento del suolo (23,7 per cento contro 20,8 per cento)
Le giovani donne sono più preoccupate per le principali problematiche ambientali rispetto ai coetanei (66,4 per cento delle 14-24enni, contro il 57,9 per cento dei coetanei). Tra i giovanissimi (14-19 anni), le ragazze sono più preoccupate dei loro coetanei per i cambiamenti climatici (+ 7,4 punti percentuali), la perdita di biodiversità (+6,7 punti), la produzione e smaltimento dei rifiuti (+4,3 punti) e la distruzione delle foreste (+3,7 punti).
L’imprenditorialità giovanile è stata rilevata in tre casi su quattro in ditte individuali rispetto al 63 per cento del totale delle imprese, nel 18 per cento dei casi in società di capitali rispetto al 22 per cento del totale e nel 6,5 per cento dei casi in società di persone e cooperative rispetto al 14,1 per cento del totale.
Il 46,5 per cento delle imprese giovanili si trova al Nord, dove tipicamente risiedono la metà delle imprese del nostro Paese, ma è nel Mezzogiorno che l’incidenza delle imprese caratterizzate dall’impronta dei giovani è più elevata: rispettivamente 13,9 per cento nel Sud e 13,2 per cento nelle Isole, rispetto al 10,1 per cento del Nord-est
I giovani imprenditori operano prevalentemente nel settore dei servizi (85,9 per cento) e nel settore sanità e assistenza sociale 19,4 per cento, il 16 per cento nel settore dei servizi alloggio e ristorazione, il 17 per cento nelle attività artistiche sportive, di intrattenimento e divertimento, il 14 per cento nei servizi alle imprese e nell’istruzione, il 13,1 per cento nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, mentre si riduce nelle costruzioni, 9,2 per cento, e nella manifattura, circa il 7 per cento.
foto sw_reg_03 da pixabay.com