Imprese e lavoro: difficoltà per il reperimento delle competenze necessarie.

Secondo le ultime rilevazioni dell’Istat il 9,4% delle imprese ha aumentato il personale nella seconda metà del 2021 mentre un altro 12,1% sta assumendo. Ma tra queste quasi i due terzi segnalano difficoltà a reperire le competenze necessarie.

Il 90,9% delle imprese ha dichiarato di essere in piena attività e il 5,9% di essere parzialmente aperto, svolgendo l’attività in condizioni limitate in termini di spazi, orari e accesso della clientela. Il 3,1% ha invece dichiarato di essere chiuso: si tratta di circa 30 mila imprese, che pesano per il 2,1% dell’occupazione.

Di queste, 18mila prevedono di riaprire mentre 12mila (pari all’1,2% delle imprese e all’1,0% degli occupati) non prevedono una riaperturai. Le quote di imprese chiuse restano molto elevate nei servizi di alloggio (6mila, il 29,8% del settore) e in quelli sportivi, ricreativi e di divertimento (2mila pari al 26,6%). L’incidenza è significativa anche nel trasporto marittimo (9,9%) e nella ristorazione (8,5%).

L’industria in senso stretto e le costruzioni presentano una ripresa più diffusa: le imprese con un fatturato in aumento sono rispettivamente il 41,2% e il 37,3% mentre scendono al 30,1% nel commercio e al 28,1% negli altri servizi. In questi due segmenti del terziario sono anche più frequenti i casi di riduzione del fatturato, 37,4% e 36,5% a fronte del 29,8% dell’industria in senso stretto e al 25,2% delle costruzioni.

Nei servizi una maggiore incidenza di imprese con fatturato in calo si rileva nei settori delle trasmissioni radiofoniche e televisive (60,8%), case da gioco (58,1%), trasporto areo (55,0%), riparazione di computer e altri beni personali (49,8%), servizi postali e di corriere (46,7%), finanziari e assicurativi (46,1%) e nel comparto della ristorazione (44,2%).

Si confermano inoltre le criticità riscontrate nei primi periodi della pandemia per le agenzie di viaggio (39,3%), le attività sportive e di divertimento (38,9%), le attività artistiche (36,9%), il settore pubblicitario (36,6%), cinematografico e musicale (35,5%).

Nel settore industriale soltanto il comparto tessile (43,7%) e quello alimentare (38,2%) presentano una quota di imprese in perdita superiore alla media complessiva (34,2%) e all’insieme del settore (29,8%). Nell’industria si conferma la maggiore dinamicità delle imprese esportatrici: tra giugno e ottobre del 2021 il 51,8% di questo insieme fa registrare un aumento del fatturato, il 20,7% presenta una variazione stabile e solo il 27,6% segna un calo.

Cig in calo ma il ricorso è ancora forte nei settori più colpiti dalla crisi. Nella seconda metà del 2021 il 16,0% delle imprese con più di 3 addetti ha fatto ricorso a misure quali la Cassa integrazione guadagni (Cig) o altre equivalenti quali il Fondo integrazione salariale (Fis). Come atteso, l’utilizzo di tali strumenti è risultato molto meno diffuso rispetto al 2020: nella fase di sospensione dell’attività produttiva durante il primo lockdown, ovvero a marzo 2020, oltre il 70% delle imprese vi aveva fatto ricorso e alla fine dell’anno l’incidenza risultava pari al 42%. Come nel 2020, anche a giugno 2021 sono state le imprese più grandi a utilizzare più frequentemente questo tipo di strumento (21%), contro il 17,3% delle medie, il 16,9% delle piccole (10-49 addetti) e il 15,7% delle micro-imprese.

LEGGI ANCHE:  Reddito di cittadinanza, il primo bilancio del Ministero sui corsi di formazione.

A livello settoriale l’utilizzo della Cig è risultato più frequente nelle imprese degli altri servizi (17,6% delle imprese) e dell’industria in senso stretto (16,8%) e più contenuto in quelle del comparto delle costruzioni (9,0%). In particolare, la maggiore diffusione ha riguardato alcune attività economiche ancora penalizzate dalla crisi, quali le attività dei servizi di agenzie di viaggio, tour operator, servizi di prenotazione e attività connesse (74,6%), attività artistiche, sportive e di intrattenimento (33,9%) e, per quel che riguarda la manifattura, nelle unità dell’abbigliamento (42,9%) e delle calzature (44,2%).

Le imprese delle costruzioni e, in misura di poco inferiore, dell’industria in senso stretto, hanno inoltre mostrato una maggiore propensione all’aumento del personale a tempo determinato o indeterminato, rispettivamente il 12,2 e il 12,8%. Negli stessi comparti la quota di chi ha dichiarato di averlo ridotto è molto più bassa (5,8% nelle costruzioni e 6,5% nell’industria) mentre la riduzione delle ore lavorate ha riguardato appena il 3,7% delle imprese del settore edilizio.

La diffusione di politiche di aumento del personale è stata significativa in tutte le classi dimensionali di tali comparti ma è risultata maggiore tra le imprese di medie dimensioni (più del 20%). All’opposto, le scelte di ridimensionamento del personale e/o delle ore lavorate sono state decisamente più frequenti tra le imprese degli altri servizi. Quelle del commercio hanno presentato una propensione relativamente bassa sia all’aumento sia alla riduzione del personale.

Segnali positivi sulle assunzioni, difficoltà per le professionalità adeguate. Il 13,6% delle imprese che hanno dichiarato di non aver aumentato il personale dell’impresa (il 12,1% del totale delle imprese con almeno 3 addetti), ha poi affermato di essere, alla fine dello scorso anno, in fase di acquisizione di risorse. Anche in questo caso l’incidenza è risultata più elevata tra le imprese dell’industria in senso stretto e delle costruzioni (rispettivamente 17,0 e 17,3%), mentre ha interessato il 10,8% delle imprese del commercio e il 12,8% degli altri servizi. In particolare, oltre al comparto della costruzione di edifici ed ingegneria civile, si osserva una frequenza di assunzioni relativamente più elevata in settori come la chimica e farmaceutica, in quello della meccanica, nella produzione di software e la consulenza informatica.

Una quota assai significativa di imprese dell’industria e delle costruzioni, che hanno assunto personale a tempo determinato o indeterminato o hanno dichiarato di essere in fase di acquisizione di risorse umane, ha segnalato difficoltà a trovare le competenze necessarie: ciò riguarda più del 76% delle unità nel settore delle costruzioni e il 66,4% in quello dell’industria. Il problema, peraltro, tocca il 55,0% delle imprese del commercio e il 66,3% di quelle degli altri servizi. Nel complesso, le difficoltà nell’acquisizione di personale sono segnalate più frequentemente nelle unità di minore dimensione: rispettivamente, dal 63,9% e il 66,7% delle micro e piccole imprese, dal 58,2% delle medie e dal 50,1% delle grandi.

Tra i profili mancanti vengono indicati con più frequenza quelli relativi alla logistica e produzione, segnalati soprattutto da imprese di medie e grandi dimensioni. Anche i profili relativi alle funzioni tecnico-ingegneristiche di supporto alla produzione sono indicati soprattutto dalle medie e grandi imprese mentre tra le micro risultano relativamente più frequenti difficoltà nel reperire risorse nell’ambito dell’area organizzativo-gestionale e nelle vendite, marketing e comunicazione.

LEGGI ANCHE:  Nessun decesso nelle ultime 24 ore. Isolamenti sotto 10000 unità.

Infine, poco meno del 10% delle imprese ha dichiarato di aver registrato una quota di dimissioni maggiore a quella osservata nel periodo pre-pandemia, soprattutto tra le grandi imprese (23,0% tra le unità con più di 250 addetti). A livello settoriale un’incidenza comparativamente elevata di dimissioni si riscontra soprattutto nel trasporto aereo, nei servizi di agenzie di viaggio e tour operator e nei servizi dell’assistenza sociale.

Smart working ancora diffuso nei servizi e nelle imprese più grandi. La diffusione delle modalità di smart working o telelavoro risulta in calo rispetto alla rilevazione effettuata nell’autunno precedente, che aveva colto una fase in cui il riacutizzarsi dell’emergenza sanitaria aveva determinato misure di contenimento e comportamenti sfavorevoli al lavoro in presenza.

La quota di imprese che segnalano l’utilizzo di modalità di lavoro a distanza è risultata del 6,6%, a fronte dell’11,3% registrato nella precedente indagine (oltre il 20% tra marzo e maggio 2020). Le differenze settoriali restano molto ampie e piuttosto stabili nel tempo. L’attività di lavoro a distanza è risultata più frequentemente utilizzata dalle imprese dei servizi: quasi un’impresa su dieci dichiara di farvi ricorso (14% a fine 2020). All’interno del comparto una quota elevata si rileva nei servizi di informazione e comunicazione (34,3%), attività professionali, scientifiche e tecniche (24,4%), istruzione (19,0%) e attività finanziarie e assicurative (17,4%).

Nell’industria, la quota di imprese che si avvalgono di tale forma di lavoro è risultata limitata (5,8%) e di gran lunga inferiore a quella osservata a fine 2020 (11,6%). Nel commercio e nelle costruzioni l’incidenza di imprese in smart working è scesa da circa il 7% di ottobre 2020 a meno del 4% nel 2021.

Nel complesso il ricorso a queste tipologie di lavoro, pur in calo in tutte le classi di addetti, è tanto più frequente con l’aumentare della dimensione d’impresa: dichiarano di utilizzare il lavoro a distanza il 4,4% delle micro-imprese e il 10,9% delle piccole mentre la quota raggiunge rispettivamente il 31,4% per le medie e il 61,6% per le grandi. La differenza si osserva in tutti i principali comparti: la quota di grandi imprese che dichiarano di avvalersi dello smart working è del 65% nell’industria e nelle costruzioni, a fronte del 50,8% nel commercio e del 61,9% negli altri servizi.

Richieste di prestiti soprattutto per finanziare l’attività corrente. Ha fatto ricorso a prestiti in forma di credito bancario o di strumenti di finanziamento ad esso alternativi il 21,9% delle unità con almeno 3 addetti, con incidenze comprese tra il 18,5% per le grandi imprese e il 25,6% per le medie. Tali quote crescono all’aumentare del grado di rischio percepito dall’impresa: da circa un quinto per chi ritiene che, su un orizzonte semestrale, la propria attività sia sostanzialmente solida a circa il 30% per coloro che la ritengono tendenzialmente a rischio.

Per oltre l’87% delle imprese tale finalità è “importante” o “molto importante” (sostanzialmente in linea con la precedente rilevazione). Per il resto, il 62,2% delle imprese ha chiesto prestiti per coprire costi fissi non comprimibili come i canoni di locazione, il 58,2% per ripagare i debiti, il 54,6% per costituire scorte di liquidità e un terzo per finanziare la riconversione della attività.

LEGGI ANCHE:  Previsioni per l'economia italiana, Istat: ripresa parziale nel 2021.

La finalità appare correlata al grado di solidità percepito dall’impresa. Da un lato le unità che ritengono la propria attività almeno parzialmente solida tendono a chiedere prestiti per costituire un cuscinetto precauzionale di liquidità con una frequenza pari al 56,2%, poco maggiore di quella (49,9%) delle imprese che si dichiarano almeno parzialmente a rischio.

Diversa è la distribuzione per tutte le altre finalità considerate, con divari evidenti soprattutto per la copertura dei costi fissi incomprimibili (80,9% per le seconde a fronte di 55,6% per le prime) e il rimborso dei debiti (77,0% e 51,6%). Coerentemente con quanto sin qui visto, ricorrono con maggiore frequenza ai prestiti le imprese di minore dimensione. Se si esclude la finalità di supporto dell’attività corrente (indicata comunque da quasi l’80% delle grandi imprese), la componente dimensionale di tale scelta emerge soprattutto per la copertura dei costi fissi ‒ rilevante per quasi due terzi delle micro-imprese, oltre la metà delle piccole e per poco più di un terzo delle grandi ‒ e per ripagare i debiti (62,1% delle micro e 34,8% delle grandi).

SitI web di e-commerce poco diffusi tra le micro-imprese. Il confronto con i risultati provenienti dall’indagine condotta nell’autunno del 2020 permette di cogliere il mutare della distribuzione delle vendite per canale web, considerando anche la dimensione d’impresa che sembra avere un importante effetto sui comportamenti.

Le micro-imprese privilegiano, anche nel 2021, l’utilizzo di modalità di comunicazione via web come canale di vendita digitale. La quota sulle vendite totali ha raggiunto il 12,0%, con un incremento assoluto rispetto al 2020 di oltre 3 punti percentuali. Significativo è anche l’incremento della quota di vendite passate attraverso le piattaforme digitali, più che raddoppiata tra 2020 e 2021 (dallo 0,6 all’1,3%). Le vendite via sito web sono invece in lieve riduzione.

Le piccole imprese hanno incrementato in misura molto marcata la quota di fatturato delle vendite dirette attraverso i propri siti web (dal 4,0% al 7,3%). Per le imprese di media dimensione (50-249 addetti) sono le piattaforme digitali ad aver registrato la maggiore espansione delle vendite (la relativa incidenza è quasi raddoppiata passando dall’1,2% al 2,2%) mentre sono risultate stabili quelle via sito web e in contrazione quelle gestite tramite altri canali digitali.

Si può ipotizzare che, mentre per le micro-imprese la scelta di privilegiare la vendita via piattaforme digitali sia dettata dalle difficoltà di gestire un proprio sito web, per le imprese medio-grandi ciò corrisponda alla possibilità di negoziare accordi commerciali favorevoli con le stesse piattaforme digitali.

Nel caso delle grandi imprese (250 addetti e oltre), che operano prevalentemente sui mercati business, spicca invece il forte aumento tra 2020 e 2021 (da 3,1% a 5,5%) della quota di vendite concluse mediante canali web di comunicazione diretta, meno utilizzati dalle imprese di dimensioni minori.

foto Sardegnagol, riproduzione riservata