Immigrati in agricoltura. Dall’impatto del Covid-19 ai percorsi di integrazione.

Mai come in queste ultime settimane gli immigrati in agricoltura sono stati al centro del dibattito pubblico e politico. Ma cosa sappiamo davvero della realtà di un fenomeno così complesso, in grado di incidere pesantemente sulla nostra agricoltura? Il CREA, con il suo Centro Politiche e Bioeconomia, che studia da anni la questione, ha appena pubblicato 3 ricerche che ne restituiscono nel loro insieme, un primo ritratto a tutto tondo, seppure ancora incompleto.

“In questa delicata fase della vita del nostro Paese – spiega Roberto Henke, direttore del CREA Politiche e Bioeconomia – l’agroalimentare, ha certamente tenuto e tiene di più, ma soffre, al pari di altri comparti, nella parte a monte della filiera, cioè nella produzione, raccolta e lavorazione dei prodotti. Ed è proprio il lavoro l’elemento più preoccupante, in quanto il blocco degli spostamenti e l’introduzione delle norme sanitarie hanno portato ad una carenza di forza lavoro disponibile, evidenziando drammaticamente ancora una volta la fragilità del sistema. Per questo ci aspettiamo, inevitabilmente, un effetto ‘atteso’, ritardato nel tempo, sui settori a valle della produzione, ma confidiamo che una reale conoscenza del problema, anche grazie al contributo della ricerca, possa favorire l’individuazione di soluzioni efficaci”.

Per lo studio di Maria Carmela Macrì, ricercatrice CREA Politiche e Bioeconomia, le norme anti-contagio (tra cui l’obbligo della quarantena, ossia 14 giorni fermi e senza alcun reddito) e la limitazione alla mobilità territoriale, hanno impedito il normale flusso di lavoratori soprattutto stagionali, sia comunitari (in particolare dalla Romania) che non comunitari, che non solo vengono in Italia, ma si spostano tra le regioni, seguendo la stagionalità e il fabbisogno lavorativo delle aziende agricole. Basti pensare a quei lavoratori stranieri che, dopo la raccolta di arance e mandarini, si sarebbero spostati verso Puglia e Campania per altre operazioni e che invece sono rimasti bloccati in Calabria nelle tendopoli di Rosarno e San Ferdinando, senza più lavoro e in condizioni igienico sanitarie certamente inadeguate. Inoltre, il forte controllo sul territorio attuato nel lockdown, ha determinato il venire meno di quella quota piuttosto rilevante di lavoro non regolare che, purtroppo, alimenta la manodopera agricola in Italia e che, in buona parte, è composta di lavoratori extra-comunitari senza permesso di soggiorno.

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Tutto ciò ha messo in luce la forte rilevanza, per non parlare di vera e propria dipendenza, della nostra agricoltura dalla manodopera straniera. I dati Istat 2019 registrano una media annuale di 166 mila stranieri prevalentemente occupati in agricoltura, il 18,3% del totale, per la stragrande maggioranza in posizione dipendente, con un trend in costante crescita; ma, in realtà, le persone che nell’arco dell’anno lavorano nel settore, anche per periodi limitati, sono molto più numerose. Infatti, secondo l’ INPS, gli operai a tempo determinato stranieri nel corso del 2019 sono stati poco meno di 360 mila, di cui più di un terzo comunitari, in particolare romeni.

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Vanno inoltre considerate alcune problematiche specifiche, in particolare la condizione delle braccianti agricole straniere, ancora più esposte al rischio sfruttamento. Occorre tutelarle, magari con approcci innovativi di governance locale come il Patto di Collaborazione tra pubblico e privato, proposto nell’ambito del progetto BRIGHT che il CREA sta realizzando nell’Arco Ionico (Puglia, Basilicata e Calabria) in collaborazione con Action Aid. 

Migrazioni nelle aree rurali che, seppur poco conosciuti ‘dall’uomo della strada’ sono fenomeni ormai consolidati, come dimostra un altro studio del CREA Politiche e Bioeconomia – realizzato nell’ambito della Rete Rurale Nazionale – che affronta soprattutto i temi dei percorsi lavorativi intrapresi e dell’integrazione sociale, per ridisegnare una geografia delle nostre campagne più aderente alla realtà.

Secondo gli ultimi dati disponibili (ISTAT 2017) sono circa 5 milioni gli stranieri che vivono in Italia, di cui il 40% nei poli urbani (2,1 milioni) e il 60% (3,1 milioni) nelle aree rurali. La presenza nelle aree rurali ha registrato un incremento pari quasi al 73% nell’ultimo decennio. Si tratta di un apporto positivo che contribuisce a ripopolare e a “ringiovanire” i territori rurali, oltre a garantirne la vitalità economica, sociale ed ambientale, attraverso il lavoro svolto nei campi, nelle stalle, per la gestione di boschi e foreste, per il recupero dei vecchi mestieri artigianali e la cura degli anziani fino alla creazione di domanda e offerta di nuovi servizi. In tal senso, vanno segnalate inoltre, le numerose e positive esperienze di inclusione promosse e sostenute dalle politiche di sviluppo territoriale (Leader e SNAI) e dalle politiche nazionali (SPRAR), anche attraverso l’agricoltura sociale.

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Non mancano purtroppo le zone d’ombra, dal lavoro irregolare al caporalato, ma si registra su questo fronte un impegno crescente a contrastarle, sia da parte delle Istituzioni sia del mondo agroalimentare.

“Dallo studio – afferma Catia Zumpano, la ricercatrice del CREA Politiche e Bioeconomia che ha curato la pubblicazione – emerge come sia necessario stabilire un giusto equilibrio fra gli interventi volti a governare la pressione migratoria e quelli finalizzati a cogliere le opportunità insite nell’accogliere nuovi abitanti. In questo quadro,vanno adottate soluzioni che favoriscano l’integrazione e riconoscano parità di trattamento con gli italiani, sul piano economico e dei diritti. A tal fine, però, – conclude – come abbiamo sottolineato più volte in questa pubblicazione, è fondamentale il recupero culturale della dignità del lavoro agricolo, soprattutto di tipo avventizio, sia esso italiano o straniero. Solo così gli verrà finalmente attribuito un riconoscimento sociale adeguato rendendolo, nella percezione collettiva, un’attività da tutelare e valorizzare”.

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