“I Rintocchi di Galusé”, il nuovo romanzo di Roberto Brughitta.
Un paese incastonato nel cuore profondo della Sardegna; un artigiano depositario di un sapere antico; una famiglia divisa a causa di un oscuro accadimento. Sono questi gli elementi da cui prende le mosse “I Rintocchi di Galusé” l’ultimo romanzo di Roberto Brughitta, pubblicato in questi giorni dalle edizioni AmicoLibro.
Artista ecclettico e multidisciplinare, Brughitta si è ritagliato un proprio spazio nella scena letteraria sarda grazie a opere che coniugano avventura e narrazione di territori e tradizioni dei quali è conoscitore appassionato. Abbiamo incontrato Roberto per parlare con lui di questa sua ultima fatica.
Roberto, come è nato “I Rintocchi di Galusé”?
È accaduto quello che era successo per “Genna di Taquisara”. L’idea è nata ascoltando musica. Io non ascolto un genere specifico, vado a periodi. Quel giorno mi ricordo che sotto consiglio di un amico, cercai “Nanneddu meu” cantata dal coro Peppino Mereu di Tonara insieme a Fred Johnson. Un mix bellissimo che consiglio a tutti di ascoltare. Subito dopo partì la canzone successiva che era infatti “Galusè”, eseguita con maestria sempre dal coro che prende il nome dal tonarese Peppino Mereu, autore della poesia Galusè.
Ero al corrente della breve vita di questo grande e prolifico poeta vissuto alla fine dell’ottocento e conoscevo anche alcune sue opere, ma sentire la canzone mi ha fatto capire che io alla fonte di Galusè non mi ero mai recato. In quel preciso momento sentii l’impulso di recarmi al più presto a Tonara per capire perché una semplice fontana potesse aver ispirato versi così suggestivi.
Da cosa nasce l’idea di dedicare un romanzo alle vicende di un “sonaggiargiu”?
Avevamo appena terminato il primo “lockdown” quando mi recai a Tonara. Avevo precedentemente contattato la sindaca parlandole delle mie intenzioni di ambientare un romanzo nel suo Comune. Mi rispose e mi fece da cicerone per due giorni interi. Fu mentre girovagavo alla ricerca delle varie fontane (Galusè non è che una delle tante) e esploravo i numerosi rioni che puntualmente mi arrivavano all’orecchio i tintinnii dei sonaggiargius che nelle varie botteghe artigianali accordavano i loro campanacci.
Ero sicuro che i suoni arrivassero dai sonaggiargius in quanto mi avevano spiegato che a Tonara da tempo non esistevano, o quasi, greggi. L’abbinamento dei campanacci con Galusè arrivò in modo del tutto casuale, ma non voglio raccontare oltre. I libro è appena arrivato in libreria e dunque saranno pochi quelli che lo avranno già letto, non vorrei rovinare la lettura.
Quello del campanaccio può essere al contempo un semplice suono e l’eco di un’identità millenaria. Come ti sei avvicinato a quest’arte magica e misteriosa?
Il suono del campanaccio, che definisci giustamente semplice è esattamente l’eco di quell’identità agropastorale che identifica la nostra terra. Al pari di uno strumento musicale lui nasce solo, le tonalità possono essere molteplici ma sempre di un’unica nota si tratta. Il bello arriva quando si attiva l’orchestra, il gregge. In quel momento ci arriva alle orecchie una melodia che se millenni fa fossero stati in grado di registrare, noi non avremmo potuta distinguerla da una odierna. Penso che in pochissimi casi si possa affermare una cosa del genere.
Ho sempre amato il suono di campane e campanacci, ma soggiornare a Tonara per qualche giorno, mi ha permesso di assaporare la vera magia di quella che forse è tra le più antiche forme d’arte musicali.
La Sardegna è l’unica regione d’Italia che non ha una maschera regionale tradizionale, anche se paradossalmente ne ha quasi una per ogni paese. Bene, quasi ognuna di queste, che quasi sempre deriva da vecchi riti arcaici propiziatori agropastorali, indossa dei campanacci di medie ma anche di grandissime dimensioni.
Il romanzo è ambientato negli anni 80. Perché proprio in quegli anni?
Non avevo nessuna idea della storia che avrei scritto, anzi non ero affatto sicuro che una storia sarebbe scaturita dal mio soggiorno a Tonara, perciò cominciai a girovagare e a chiedere notizie sui vari luoghi che visitavo.
Mi imbattei in un gentilissimo abitante del posto che mi raccontò le varie leggende che aleggiavano intorno alla fontana di Morù. Oltre a quella che narra che alle donne che si abbeveravano alla sua fonte, veniva il gozzo grosso ( fu accertato che l’acqua creava problemi alla tiroide), c’era anche la leggenda che chi beveva l’acqua di “Morù”, chiamata anche “abba ‘e Toni”, diventasse matto. Questo solo perché i tonaresi per carattere sono scanzonati e allegri.
La follia mi fece venire in mente Nunzio Ciraldo, quello che veniva definito lo scemo del villaggio a cui nell’eccidio della rivolta di Bronte nessuno dei fucilieri ebbe il coraggio di sparare, anche se poi…
Quella sera poi mi imbattei in un articolo che narrava di un pompiere che morì durante lo spegnimento di un incendio boschivo, il 2 gennaio del 1981. L’intervento iniziò la notte di capodanno. L’uomo, che si chiamava Luciano, lascò la moglie e un ragazzino. In un attimo mi erano arrivati due nomi e il periodo d’ambientazione.
I tuoi romanzi paiono riflettere la tua natura portata all’esplorazione e all’avventura. Quanto di realmente vissuto vi è in questo romanzo?
Di vissuto c’è tutto il territorio, perché grazie alla sindaca di allora, Flavia Loche, ho potuto visitare tutti i luoghi descritti nel romanzo, compresa l’antica casa Porru. Ho potuto dissetarmi alla fonte di Galusè e dalle altre numerose fontane. Ho incontrato realmente una famiglia di sonaggiargius, i Floris che hanno messo a mia disposizione la loro esperienza. Inoltre ho frequentato realmente l’Insolito Bar citato più volte. Ho gustato il vero torrone di Tonara e alla locanda del Muggianeddu ho gustato le prelibatezze di zona, compreso il “cocoi de casu”.
Il tuo rapporto con la storia sarda è intenso e vibrante? In che misura la nostra identità è fonte di ispirazione per te?
Chi mi conosce sa che m piace percorrere la Sardegna in lungo e in largo, per mare, per terra e perfino sotto terra. A breve andrò anche per aria. La storia è sempre stata la mia materia preferita, purtroppo tutto ciò che i testi scolastici dei miei tempi citavano sulla civiltà nuragica, era racchiuso in due o tre pagine.
Tutto il resto l’ho scoperto da solo grazie alle guide trekking e al web. Ho scoperto un mondo che a scuola non ti insegnano di pozzi sacri, bronzetti , navicelle e tanto altro. Ma soprattutto ho scoperto che la civiltà nuragica era qualcosa di stupefacente.
Di questo devo ringraziare sicuramente Pierluigi Montalbano dell’associazione Honebu , che con un linguaggio semplice mi ha fatto appassionare al genere. Ora sappiamo per certo che i nostri antenati non erano semplici pastori e agricoltori che vivevano all’interno di torri di pietra, ma eravamo soprattutto guerrieri, ingegneri, astronomi, abili costruttori, ottimi artigiani e navigatori. Come potrebbe tutto questo non essere fonte d’ispirazione?
Oltre che a Tonara, hai dedicato pagine bellissima a Elmas e Siliqua. Ci sarà un mai un romanzo ambientato nel quartiere di Sant’Avendrace in cui sei nato e con il quale hai mantenuto un forte legame?
Non solo Elmas e Siliqua ma anche Lunamatrona e Bosa, tutti posti a me cari. In “Baci di laguna”, che è ambientato sia a Simblia, (villaggio che anticipava Elmas) che nell’antica Karalis, ho citato Tuvixeddu e la grotta della vipera, ma con pochissime righe. Questo proprio perché sono in attesa di un raggio di sole che mi illumini.
Mi piace attendere le storie così, senza forzare la mano. Probabilmente un giorno arriverà e credo, in quanto essendo nato e cresciuto fina alla maggiore età in quel quartiere, sarò sicuramente in grado di descrivere perfettamente il territorio.
La maggior parte delle persone conosce la necropoli di Tuvixeddu così come giustamente la fanno visitare, ma io da ragazzino e spesso anche da adulto ho potuto percorrere i due diversi acquedotti esistenti, entrare in tutte le tombe, vedere le varie sculture su alcune di esse. I papiri, il toro, la luna, l’edera, la maschera tonda, le varie linee in ocra non sono che alcune delle meraviglie che ho potuto osservare. Inoltre ho visto corredi interi in ceramica, monete, monili in avorio, rame e anche oro, oltre che a scarabei di ogni dimensione. Insomma, i cassettini della memoria sono stracolmi di ricordi, non resta che attendere che un evento particolare mi spinga ad aprirli.