I giovani del Mezzogiorno: la fotografia dell’Istat: “Progressivo impoverimento demografico”.

La fase storica più recente si caratterizza soprattutto per il progressivo impoverimento demografico, tanto che giovani e adolescenti it Italia rischiano di divenire sempre più “merce rara”. Lo ha rimarcato oggi l’Istat attraverso l’indagine sui giovani del Mezzogiorno.

Un lavoro di indagine sulla condizione giovanile che propone una riflessione sulla qualità della vita e i divari territoriali tra generazioni. La condizione dei giovani italiani appare piuttosto fragile, a partire da una riduzione ormai strutturale della loro consistenza demografica. Nel 2023 in Italia si contano circa 10 milioni 200mila giovani in età 18-34 anni; dal 2002 la perdita è di oltre 3 milioni di unità (-23,2%). L’Italia è il Paese Ue con la più bassa incidenza di 18-34enni sulla popolazione (nel 2021 17,5%; media Ue 19,6%).

Un inverno demografico inarrestabile: i giovani, infatti, diminuiscono mentre la popolazione aumenta (+3,3% dal 2002 a oggi). Ma il fenomeno, ricordano dall’Istat, è attivo fin dai “baby-boomers” (nati fra il 1956-’65) e solo recentemente ha subito un’accelerazione a partire dai cosiddetti “millennials” (nati fra il 1981-‘95).

Il Mezzogiorno d’Italia presenta una perdita accentuata di popolazione giovanile. Attualmente, la quota di giovani (18-34 anni) è maggiore nel Mezzogiorno (18,6%) rispetto al Centro-nord (16,9%), ma nel primo caso la flessione è molto severa (-28% dal 2002). Si prevede che nel lungo periodo (2061) gli ultra-settantenni saranno il 30,7% della popolazione residente nel Mezzogiorno (18,5% nel Centro-nord).

La gioventù, ancora, rappresenta un’età di passaggio, ma gli attuali giovani del Mezzogiorno hanno un percorso più “lungo e complicato” verso l’età adulta. Si dilatano notevolmente i tempi di uscita dalla casa dei genitori, di formazione di una famiglia propria, della prima procreazione. Nel Mezzogiorno il 71,5% dei 18-34enni nel 2022 vive in famiglia (64,3% nel Nord Italia; 49,4% nell’Ue a 27), con un forte aumento rispetto al 2001 (62,2%).

La propensione alla nuzialità e alla procreazione si riduce, e tali eventi si posticipano ovunque. Nel 2021, l’età media al (primo) matrimonio degli italiani è di circa 36 anni per lo sposo (32 nel 2004) e 33 per la sposa (29 nel 2004); quella della prima procreazione per le donne è in continuo aumento (32,4 anni contro 30,5 nel 2001). Ciò rischia di interferire con il ciclo biologico della fertilità e di alimentare l’“inverno demografico”.

Nelle nuove generazioni di giovani meridionali si rileva una progressiva estensione dei percorsi di studio. I cosiddetti “millennials” (nati fra il 1981 e il 1995) sono di gran lunga più istruiti, soprattutto per la visibile riduzione della componente con titoli inferiori al diploma (24,4%) ormai superata da quella terziaria (27,8%).

Negli ultimi anni è aumentata la propensione agli studi universitari, soprattutto nel Mezzogiorno: qui nell’a.a. 2021-22 si registrano 58 immatricolati per 100 residenti con 19 anni (56 nel Centro-nord); 47 iscritti ogni 100 19-25enni (41 nel Centro-nord); 22 laureati (anno solare 2022; I e II ciclo) ogni 100 23-25enni (19). Le immatricolazioni aumentano soprattutto nelle Regioni con alta disoccupazione e basso Pil pro-capite (fra il 2010 e il 2022: Sicilia +15,6 punti; Sardegna +13,6; Calabria +10,9; di contro: Lazio +8,4; Lombardia +5).

I percorsi universitari dei meridionali sono spesso più lenti e caratterizzati da una significativa “emigrazione studentesca”, sia all’iscrizione (il 28,5% dei meridionali si iscrive in atenei del Centro-nord), sia alla laurea (39,8% in atenei del Centro-nord), sia nel post-laurea (dopo 5 anni solo il 51% lavora nel Mezzogiorno). È un paradosso, ma nel medio-lungo periodo, ciò potrebbe alimentare una deprivazione ulteriore di capitale umano con competenze avanzate, indispensabile per il Mezzogiorno.

La carenza di opportunità lavorative stabili e di buona qualità nel Mezzogiorno non è di certo una novità, ma la situazione fra i “millennials” peggiora. Il tasso di attività (20-34 anni), già basso nella generazione precedente (60,3%) si riduce ulteriormente (54,4%), come il tasso di occupazione (41,6%, dal 45,3%), mentre resta molto elevato quello di disoccupazione (23,6%; 9,1% nel Centro-nord).

Le Regioni caratterizzate da elevata disoccupazione e debole sistema produttivo presentano un accentuato impoverimento demografico di 18-34enni (dal 2002 a 2022: Sardegna: -39,8%; Calabria: – 32,2%), la maggiore estensione delle transizioni familiari (30-39 anni che vivono in famiglia: Sardegna 37,8%; Campania 35,1%; Calabria 34,6%), un’alta consistenza di NEET (Calabria 35,5%, Campania 34,7%, Sicilia 33,8%).

La crescente indeterminatezza della “transizione lavorativa” influisce negativamente sulla qualità della vita dei giovani meridionali: oltre un giovane su due (51,5%) è insoddisfatto della situazione economica (40,7% nel Centro-nord), e un terzo la considera peggiorata (35,6%). Oltre un giovane meridionale su cinque (21,8%; 15% nel Centro-nord) si dice insicuro verso il proprio futuro. L’insicurezza aumenta nelle regioni con basso Pil pro-capite e alta disoccupazione: è minima in Piemonte (12,3%) e Veneto (14,9%), massima in Sicilia (27,9%), Calabria (25,1), Sardegna (22%) e Puglia (21,6%).

Com’è noto, spiegano dall’Istat, non esiste una definizione prescrittiva e/o condivisa di “gioventù”. Essa varia nei diversi contesti storici e culturali e tende ad accomunare individui eterogenei per appartenenza sociale, territoriale e altre discriminanti socio-economiche.

GENERAZIONEAnnoEtà al 2022 (1 gen.)Consistenza (x 1000 persone)
inizialefinaleminimamassimaMaschiFemmineTotale
“Ricostruzione”1926194576952.5743.7976.371
“Impegno (baby boom 1)”1946195566753.2063.6056.811
“Identità (baby boom 2)”1956196556654.1624.3978.559
“Transizione (Gen-X)”1966198041556.7236.81313.537
“Millennio (Millennials)” (Gen-Y)1981199526404.9554.8069.761
“Reti (I-generation)” (Gen-Z)199620156255.8275.41911.246
di cui, popolazione di studio (18-34 anni al 1-1-2022)
“Millennials” (Gen-Y)1987199526342.8752.7505.624
“I-generation” (Gen-Z)1996200318252.4292.2204.649
di cui, popolazione di confronto (18-34 anni al 1-1-2002)
Transizione” (Gen-X)1967198318346.7666.62913.395
Elaborazione su fonte Istat (https://demo.istat.it)

Tendenze demografiche: la flessione dei giovani nel Mezzogiorno. Al 1° gennaio 2022, in Italia i residenti con età compresa fra 18 e 34 anni sono poco meno di 10,3 milioni, di cui poco più della metà (51,6%) di sesso maschile. Il peso sulla popolazione generale è del 17,4%, in tendenziale decremento (-23,3% rispetto al 2002) e – come si dirà meglio oltre – inferiore alla media Ue. L’incidenza dei 18-34enni sulla popolazione generale è superiore nel Mezzogiorno (18,6%) rispetto al Centro-nord (16,8%), ma nel primo caso si registra una flessione più importante (-28% sul 2002).

Tutte le regioni meridionali, a eccezione di Abruzzo (17%) e soprattutto Sardegna (15,8%), presentano attualmente una componente giovanile più cospicua della media nazionale. Tuttavia, l’arretramento rispetto al 2002 è più forte in tutta la Ripartizione, con punte molto alte in Sardegna, Basilicata, Calabria, Molise e Puglia. La Campania ha il valore più elevato di 18-34enni (19,9%), seguita dalle altre regioni maggiori del Sud. Nel Centro-nord si distingue in positivo il caso del Trentino Alto Adige – in particolare la Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen (19,2%) – la cui quota di popolazione giovanile risulta seconda soltanto alla Campania.

   Anno 2022Anno 2002variazioni (2022-2002)
Popolazione residente18-34 anni (n)18-34 anni/totale (%)Popolazione residente18-34 anni (n)18-34 anni/totale (%)n%
Piemonte4.256.350695.90916,54.212.726914.19421,7-218.285-23,9
V. Aosta123.36020.36416,7119.34726.95622,6-6.592-24,5
Lombardia9.943.0041.717.47117,49.033.9092.107.76823,3-390.297-18,5
Liguria1.509.227233.61415,81.570.152303.07819,3-69.464-22,9
Trentino-Alto Adige1.073.574200.96918,9939.634220.07323,4-19.104-8,7
– Bolzano/Bozen532.616102.41419,2462.884112.70724,3-10.293-9,1
– Trento540.95898.55518,2476.750107.36622,5-8.811-8,2
Friuli-Venezia Giulia1.194.647190.24816,21.184.713258.99621,9-68.748-26,5
Veneto4.847.745824.55617,24.527.5991.064.38423,5-239.828-22,5
E. Romagna4.425.366739.57116,94.003.078873.91221,8-134.341-15,4
Toscana3.663.191588.94016,33.499.109756.33421,6-167.394-22,1
Umbria858.812138.38616,3826.176179.25621,7-40.870-22,8
Marche1.487.150246.78316,81.453.413324.95822,4-78.175-24,1
Lazio5.714.882962.04716,95.117.7831.204.61823,5-242.571-20,1
Abruzzo1.275.950216.04617,01.262.187292.43523,2-76.389-26,1
Molise292.15051.23417,5320.19073.85223,1-22.618-30,6
Campania5.624.4201.118.61119,95.699.9621.477.89925,9-359.288-24,3
Puglia3.922.941723.99418,44.020.6941.028.33525,6-304.341-29,6
Basilicata541.16899.30518,3597.103146.42024,5-47.115-32,2
Calabria1.855.454345.28618,52.008.185503.22025,1-157.934-31,4
Sicilia4.833.329908.40518,84.967.3061.220.80624,6-312.401-25,6
Sardegna1.587.413251.59415,81.630.004417.97225,6-166.378-39,8
Centro-nord39.097.3086.558.85816,936.487.6398.234.52722,6-1.675.669-20,3
Mezzogiorno19.932.8253.714.47518,620.505.6315.160.93925,2-1.446.464-28,0
ITALIA59.030.13310.273.33317,556.993.27013.395.46623,5-3.122.133-23,3
Popolazione residente in italia: totale e giovani in etÀ 18-34 anni. regioni e ripartizioni. Fonte Istat.

Il decremento della popolazione giovanile in Italia prende avvio nella seconda metà degli anni Novanta, a partire dal picco del 1994 (15.183.990), esito conclusivo del secondo baby boom.

Da quell’anno si registra un calo sistematico in valore assoluto (circa 5 milioni in meno sul 1994) e di incidenza sulla popolazione generale (-32,3%), cui fa da contrappunto un incremento tendenzialmente speculare degli ultra-sessantacinquenni, dai quali – in sostanza – deriva la tenuta demografica e la modesta tendenza incrementale in atto nella popolazione. Tale fenomeno – già definito di “de-giovanimento” – consiste nella progressiva erosione dei contingenti delle nuove generazioni per effetto della denatalità, e nel Mezzogiorno anche a causa di una consistente ripresa dei flussi migratori.

Il “de-giovanimento” italiano è parte di un processo più ampio che coinvolge quasi per intero il territorio europeo. Negli ultimi due decenni (2001-’21), nell’Ue27 (senza UK) si è registrata una perdita netta di oltre 16,6 milioni di abitanti fra 18 e 34 anni. Tale componente è passata da circa 104,3 milioni del 2001 a 87,6 milioni del 2021 (-16%), da quasi un quarto (24,3%) a poco meno di un quinto dei residenti (19,6%).

Queste dinamiche hanno interessato l’Ue in modo non uniforme: i Paesi dell’area orientale, centrale e meridionale hanno fatto registrare cali quasi sempre molto importanti, mentre alcuni altri (Paesi scandinavi, Paesi Bassi, Francia e Germania) hanno evidenziato perdite contenute. A tale decremento generalizzato fanno eccezione solo alcuni Paesi di dimensioni ridotte (Cipro, Malta, Lussemburgo) e la Svezia.

L’Italia (chi lo avrebbe mai detto) presenta una tendenza negativa accentuata, e – soprattutto – nel 2021 diviene il Paese con la più bassa incidenza di 18-34enni sulla popolazione (17,5%), inferiore di circa due punti alla media Ue (19,6%). Casi similari sono la Grecia, la Spagna, il Portogallo, la Bulgaria, la Slovenia; ossia, contesti nazionali che – a parte il caso iberico – sono poco comparabili sul piano della struttura socio-economica.

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Dal Duemila in poi, dunque, l’Italia ha fatto registrare una performance vistosamente negativa riguardo alla consistenza della popolazione giovanile: si è passati da una collocazione molto prossima alla media Ue – con quote superiori a numerosi altri Paesi (Germania, Svezia, Finlandia, Belgio, Olanda, ecc.) – fino a occupare in solitario la posizione di coda.

Per inciso, attualmente il nostro Paese si colloca ben al di sotto della media comunitaria anche per il peso della componente dei 18-25enni: 7,9% nel 2021 (8,6% nell’Ue27), a fronte di valori più elevati in Paesi di peso comparabile (Germania 8,5%; Francia 9,3%). È principalmente il portato di una bassa natalità, da molti anni inferiore alla media comunitaria: in Italia il tasso di natalità grezzo nel 2021 è di 6,8 nati vivi ogni 1.000 abitanti (media Ue 9,1), valore in forte decremento (era di 7,6 nel 2017).

Se si osserva il trend della consistenza dei 18-34enni nelle due macro-ripartizioni territoriali dalla generazione dell’“identità” in poi, si evince come dai primi anni Ottanta l’incidenza di tale componente inizi a ridursi in termini di peso generale (dal 24,4% del 1982 al 23,5% del 2001). Il calo più consistente si registra a partire dai cosiddetti “millennials”, primi veri protagonisti dell’arretramento demografico in oggetto.

Nel Mezzogiorno, dove l’entità dei giovani rapportata ai pari età del resto del Paese risulta in forte calo, si prevede che già nel 2041 in questi territori i 18-34enni scenderanno al di sotto dei 3 milioni di unità.

Nel Centro-nord le tendenze attuali sembrerebbero prefigurare un certo rallentamento della decrescita, per l’effetto congiunto di flussi migratori positivi e di una leggera ripresa della natalità, da attribuire soprattutto alle nascite da genitori stranieri. Tali aspetti presentano tendenze opposte nel Mezzogiorno, dato il trend migratorio negativo e i tassi di natalità e fecondità in decremento.

Se si fa riferimento ai contesti regionali maggiormente interessati dal “de-giovanimento” – come detto Sardegna, Calabria, Basilicata, Molise, Puglia – si può osservare come il fenomeno segnali nessi visibili con i principali parametri di sviluppo socio-economico. Il coefficiente di correlazione fra il tasso di variazione dei 18-34enni nel periodo di riferimento (2002-2022) ha evidenziato una relazione significativa: inversa con il tasso di disoccupazione (-0,61); diretta con il Pil pro-capite (0,80). Ne deriva che la popolazione giovanile tende a ridursi con intensità maggiore dove sono più carenti le opportunità occupazionali specifiche e dove è più bassa la ricchezza prodotta, e viceversa. Le principali regioni meridionali ricadono tutte nel quarto quadrante, caratterizzato da un assetto socio-economico debole e da una riduzione accentuata dei giovani.

L’estensione delle transizioni familiari e i rischi per la fecondità. Negli ultimi anni, in Italia si è assistito a una progressiva “semplificazione” nella struttura delle famiglie accanto a un’evoluzione delle tre transizioni tipiche dell’età giovanile: uscita dalla famiglia di origine; creazione di una famiglia propria (con o senza matrimonio); procreazione nell’ambito del nuovo nucleo familiare.

Tali transizioni sanciscono progressivamente il termine dell’età di passaggio, ma presentano – anche storicamente – andamenti non sempre omogenei e/o di tipo lineare. Ai fini specifici, è sufficiente evidenziare che nel corso degli anni Ottanta e Novanta nel nostro Paese si fa strada una tendenza evidente all’estensione delle transizioni familiari, che inverte la dinamica osservata nella prima metà del secolo scorso e non sembra ancora essersi arrestata. Ciò ha fatto sì che nel panorama comunitario l’Italia consolidasse l’immagine di un Paese caratterizzato da una moratoria eccessiva del distacco dei giovani dal nucleo originario.

Lo scenario più recente segnala come a livello comunitario, nella fascia d’età di interesse, circa un giovane su due viva ancora con i genitori. Tale quota in Italia supera i due terzi, esito di un incremento accentuato delle convivenze in famiglia, peraltro in controtendenza rispetto all’andamento generale. Nell’Ue27, soltanto quattro Stati – Croazia, Grecia, Slovacchia e Portogallo; Paesi interessati da bassa natalità e da un impatto profondo della Grande crisi del 2008 presentano attualmente quote superiori all’Italia.

Un primo sguardo d’insieme su alcuni selezionati indicatori ufficiali conferma – per il nostro Paese – una tendenza in atto a procrastinare le transizioni familiari. Il processo è più pronunciato fra le componenti giovanili del Mezzogiorno, dove le coorti più recenti di 18-34enni presentano una più diffusa propensione alla permanenza nella famiglia d’origine (soprattutto fra i maschi: 79,4%; femmine 65,9%), sia rispetto alle precedenti generazioni di coetanei di questi stessi territori, sia rispetto al Centro e soprattutto al Nord Italia. Contestualmente, si osserva una dilazione dei tempi del matrimonio e della procreazione. L’età media del (primo) matrimonio resta più bassa nel Mezzogiorno, soprattutto fra le spose (32 anni), mentre si registra ovunque un aumento significativo dell’età media della procreazione, anche fra le giovani donne.

TRANSIZIONESesso20012021
NordCentroMezzogiornoNordCentroMezzogiorno
I) VIVONO IN FAMIGLIA (%) (*)Maschi65,769,869,869,572,779,4
Femmine50,653,454,557,161,065,9
II) SI SPOSANO (età media) (**)Maschi333331373734
Femmine293028343432
III) HANNO FIGLI (età media) (***)Maschi353534363635
Femmine313130323332
Indicatori relativi alle transizioni familiari per ripartizione e sesso. Anni 2001 e 2021. Valori medi e percentuali (*) 18-34 anni; (**) dati 2004 e 2021 (solo matrimoni fra celibi-nubili; esclusi divorziati e vedovi); (***) maschi (età alla nascita del figlio); femmine (età al parto)
Fonte: Istat (http://dati-giovani.istat.it/)

Si conferma come fra i giovani meridionali del nuovo millennio i tempi di uscita dalla famiglia di origine tendano a dilatarsi in modo visibile, per cui questa componente si distingue in modo netto da tutti i rimanenti gruppi di confronto. Tali differenze si delineano soprattutto intorno ai 26-27 anni, età in cui si osserva una divaricazione molto significativa degli andamenti su base territoriale e generazionale, la quale si amplia via via nelle età successive, non riuscendo a colmarsi neppure verso il limite superiore.

Si stima che a 33 anni, oltre 4 giovani su 10 nel Sud e Isole (41,5%) viva con i genitori, con entità pressoché doppia rispetto ai coetanei del Centro-nord (20,3%) e alla precedente generazione di giovani meridionali (21%). A 34 anni la quota si riduce (28,9%), restando però visibilmente superiore ai due gruppi di confronto: territoriale (19,6% nel Centro-nord nel 2021) e generazionale (19,8% nel Mezzogiorno nel 2001). Tale divario decresce molto lentamente anche nelle componenti di età superiore: nel 2021, infatti, un quarto circa (24,4%) dei 37enni del Mezzogiorno vive con i genitori, a fronte del 13,5% dei coetanei del Centro-nord e di una quota analoga nella medesima componente del 2001 (13,8% nel Centro-nord; 12% nel Mezzogiorno).

Per le rimanenti tipologie di transizione, gli attuali divari territoriali si riducono mentre assumono maggiore rilievo quelli generazionali. Si conferma sia una progressiva riduzione della propensione alla nuzialità sia – soprattutto nel Mezzogiorno – alla procreazione.

Nel 2021 solo il 12,9% dei casi in questa fascia d’età risultava coniugato o coabitante in un nucleo familiare autonomo, con una leggera prevalenza nel Centro-nord (13,6% contro 11,7%). Tale casistica si riduce in modo importante rispetto alla generazione precedente, poiché nel 2001 vive in una famiglia propria oltre un 18-34enne su quattro (28,3%; 30,2% nel Mezzogiorno). Inoltre, solo il 14,4% ha almeno un figlio, senza apprezzabili differenze territoriali ma in decremento rispetto al 2001, quando tale quota era più alta (21,7%), e – soprattutto – oltre la metà dei 34enni (55,8%) aveva già procreato (40,8% della generazione attuale).

Se la forbice fra i giovani che hanno già compiuto almeno la prima transizione familiare e i rimanenti si è ampliata in modo molto rilevante, ciò vale soprattutto per la componente maschile del Meridione, in cui – oltre alla maggiore propensione a prolungare la permanenza in famiglia – una quota particolarmente bassa vive in coppia (7,1%) o ha almeno un figlio (8,4%). Tuttavia, nell’ultima fase il mutamento appare accentuato anche nei comportamenti delle giovani donne di Sud e Isole, fra le quali la tradizionale precocità al compimento di tutte le transizioni familiari – compresa la nuzialità e la procreazione – sembra gradualmente livellarsi ai comportamenti delle coetanee del Centro-nord.

Rispetto a queste due ultime transizioni familiari i comportamenti giovanili appaiono più omogenei sul piano territoriale ma divergenti in chiave generazionale, soprattutto per effetto di un ampliamento dei tempi nel Sud e Isole. I “millennials” italiani sembrano somigliarsi molto più fra di loro, al di là delle appartenenze territoriali, che con i fratelli/sorelle maggiori e/o con i genitori, a causa di uno slittamento delle transizioni familiari, aspetto che differenzia in modo significativo le attuali generazioni giovanili dalle precedenti.

La dilatazione delle transizioni familiari, in definitiva, è un processo ancora attivo e generalizzato. Riguardo all’autonomia dalla famiglia di origine – di norma, transizione primaria e di riferimento – questo fenomeno appare evidente soprattutto nelle generazioni dei giovani meridionali del nuovo Millennio. Il dettaglio regionale sottolinea come il prolungamento fino alla soglia dei 40 anni sia un fenomeno recente e tipico di tutte le regioni del Mezzogiorno, interessate complessivamente da un trend incrementale molto spinto nell’ultimo decennio, con picchi molto elevati soprattutto in Sardegna; Campania e Calabria. Tali regioni, unitamente all’Abruzzo, evidenziano un’accentuazione di questa tendenza, la quale – di converso – presenta un segno contrario in quasi tutto il Nord e tutto il Centro (eccetto la Toscana).

La permanenza protratta e tendenzialmente di massa nella famiglia d’origine può essere un sintomo delle difficoltà connesse alla transizione verso l’età adulta derivanti da vincoli di contesto più che da scelte personali. Non a caso, si delinea un nesso significativo con le opportunità di inserimento lavorativo, piuttosto evidente nella collocazione assunta dalle diverse regioni sul piano delineato dal tasso di disoccupazione dei giovani-adulti (ascisse) e dalla variazione in punti percentuali fra 2021 e 2001 dei giovani inseriti nella famiglia d’origine (ordinate), anche in relazione al Pil pro-capite (dimensione delle bolle). In altri termini, le convivenze protratte tendono a divenire più diffuse dove il tasso di disoccupazione è più elevato e più bassa la ricchezza prodotta, e viceversa.

Si può osservare come tutte le regioni del Mezzogiorno si collochino nel primo quadrante, caratterizzato da opportunità occupazionali molto basse e da permanenze protratte in famiglia. Le regioni settentrionali – raggruppate anche per livello di contiguità territoriale nel quadrante speculare – sono caratterizzate da transizioni più brevi, presumibilmente rese possibili da condizioni di contesto più favorevoli.

Nelle regioni collocate nel primo quadrante, in definitiva, non solo come si è visto sopra si hanno meno giovani, ma si assiste contestualmente a una dilatazione di questa età della vita, più evidente nei maschi ma ormai visibile anche fra le giovani donne. Questi fenomeni segnalano un nesso causale con lo sviluppo socio-economico e rischiano di alimentare ulteriormente il declino socio-demografico, non da ultimo per i crescenti pericoli di interferenza con i limiti fisiologici connessi alla possibilità di procreare.

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Il prolungamento dei percorsi di istruzione. Il XX secolo si è caratterizzato per una progressiva espansione del sistema scolastico italiano. A partire dagli anni Sessanta si è registrata una graduale estensione dei percorsi formativi degli individui e un conseguente incremento dei livelli di istruzione, particolarmente fra le giovani donne.

Malgrado i progressi compiuti, il nostro Paese continua a evidenziare ritardi piuttosto rilevanti, collocandosi da tempo in fondo alla graduatoria europea per livello d’istruzione. Nella popolazione giovanile persiste una componente con bassa istruzione (titoli inferiori al diploma secondario) più consistente della media Ue27 (16,8% contro 15,1%), che colloca l’Italia fra i primi cinque Paesi per numero di giovani in questa condizione. All’opposto, l’Italia è fra le cinque posizioni di coda nell’Ue per quota di istruzione terziaria (21,7% contro 30,3%), nonché fra i primi Paesi Ocse in cui fra i 25-34enni tale livello resta meno diffuso rispetto a quello secondario superiore o post-secondario non terziario.

Nel Mezzogiorno sull’istruzione persiste un quadro di particolare arretratezza e la popolazione resta mediamente meno istruita. Tuttavia, l’andamento dei livelli di istruzione in chiave generazionale consente di apprezzare progressi significativi e generalizzati. I “millennials e post-millennials” (nati fra il 1987 e il 1996) risultano di gran lunga più istruiti rispetto alle generazioni precedenti. In particolare, nel Mezzogiorno la quota di bassa istruzione appare in visibile decremento (24,4%; era il 41,5% nella generazione precedente) mentre quella terziaria coinvolge ormai oltre un quarto della coorte di riferimento, pur evidenziando uno scarto ancora importante rispetto al Centro-nord (27,8% contro 32,9%).

Pertanto – sebbene la quota di giovani in possesso di un’istruzione terziaria resti al di sotto della media Ue (41,2% dei 25-34enni nel 2021) e lontana dall’obiettivo del 45% per il 2030 – nelle ultime generazioni si riscontrano progressi visibili. Nel Mezzogiorno resta un gap col resto del Paese, che appare più marcato per le giovani donne di questi territori rispetto alle coetanee del Centro-nord, sia nella bassa istruzione (22,3%; 16,5% nel Centro-nord) che nel livello terziario (24,4% contro 29,4%). Tuttavia, accanto a una notevole e generalizzata riduzione della componente meno qualificata, è soprattutto fra le giovani donne di Sud e Isole che si registra un miglioramento notevole, in particolare nei livelli di istruzione terziaria.

Tali tendenze più recenti sembrano derivare da una progressiva estensione della durata dei percorsi d’istruzione, un fenomeno attivo dal secondo dopoguerra in poi. In particolare, si rileva una diffusa propensione delle nuove generazioni a proseguire negli studi anche dopo i 18 anni di età. Ciò prelude – come si dirà meglio oltre – a una maggiore apertura verso gli studi universitari. Nel Mezzogiorno si rileva una componente più ampia caratterizzata da percorsi protratti oltre i 25 anni di età (16,1% di 25-34enni; 11,2% nel Centro-nord) in significativo aumento rispetto al 2001 (10,7% nel Mezzogiorno; 8,9% nel Centro-nord). Si conferma, altresì, come nell’attuale generazione di giovani siano soprattutto le donne del Mezzogiorno a prolungare il proprio percorso di studi.

Sotto questo profilo, si rileva come negli ultimi anni, la popolazione studentesca delle università italiane sia progressivamente aumentata, con un picco nell’a.a. 2020-‘21 (1.839.846; +4,3% sul 2019-‘20), e un leggero decremento nel 2021-22 (1.822.141: -1%). Tale tendenza incrementale è soprattutto il portato di un crescente accesso alle università telematiche (161.709 iscritti nel 2021-22 contro 39.623 nel 2010-11: + 308%) a fronte di un leggero calo degli iscritti a quelle tradizionali (rispettivamente: 1.660.432 e 1.782.195: – 6,8%).

L’andamento delle immatricolazioni (neo-iscritti) è risultato piuttosto altalenante, con un trend crescente nella prima fase degli anni Duemila (picco nell’a.a. 2003-’04: 338.036), cui è seguita una contrazione di durata decennale (minimo storico nell’a.a. 2013-’14: 268.725). Successivamente, si è avuta una nuova ripresa, e nel 2020-21 gli immatricolati (336.074) sono tornati su valori prossimi al 2003, tendenza arrestatasi in concomitanza con la pandemia da Covid-19. Inoltre, l’entità delle immatricolazioni ha risentito del calo demografico: nell’ultimo decennio (2011-2021) i diciannovenni (età modale degli immatricolati) italiani si sono ridotti del 6% circa, con un forte calo nel Mezzogiorno (-18,6%; + 3,1% nel Centro-nord).

Nonostante ciò, nella composizione per residenza anagrafica si rileva un aumento dei neo-iscritti soprattutto nel Mezzogiorno. Tale fenomeno, peraltro, si pone in controtendenza rispetto al mutamento della geografia del sistema universitario, in cui gli atenei del Mezzogiorno risultano sempre meno attrattivi.

Nell’ultimo anno accademico (2022-’23) gli immatricolati sono stati complessivamente 319.739: di questi, due terzi circa (63,3%) residenti al Centro-nord e la quota rimanente nel Mezzogiorno (36,7%). Rispetto all’anno precedente le immatricolazioni sono risultate in leggero decremento (-1,2%) essenzialmente per le dinamiche demografiche anzidette, non a caso in modo più evidente nel Sud e nelle Isole (-2,3%; -0,5% nel Centro-nord). Tuttavia, ciò avviene al culmine di una fase in cui la propensione delle nuove generazioni ad intraprendere un ciclo di studi terziario aumenta soprattutto nel Mezzogiorno, tanto che nell’ultimissima fase le immatricolazioni universitarie di residenti in questi territori superano (in termini relativi) quelle del Centro-nord.

L’analisi delle tendenze relative al tasso di iscrizione e a quello di conseguimento della laurea rafforza l’ipotesi di una crescente propensione verso gli studi universitari nelle nuove generazioni del Mezzogiorno. In base ai dati diffusi dal MIUR, nel 2021-’22 in Italia gli studenti italiani (di cui è nota la residenza anagrafica) iscritti a un percorso universitario sono 1.775.879 (97,5% del totale), di cui poco meno di 4 su 10 residenti nel Mezzogiorno (39,4%), con un rapporto di 47 iscritti ogni 100 giovani in età 19-25 anni. Si tratta di un valore visibilmente più elevato rispetto a tutti i parametri comparativi considerati, in chiave diacronica (era meno di 44 nel 2011) o sincronica (è di 41,5 nel Centro-nord).

Inoltre, se nell’a.a. 2010-‘11 si contavano 15,6 laureati (tutte le lauree, I e II ciclo) ogni 100 residenti sulla popolazione 23-25 anni, questi divengono circa 20 (19,7) nell’a.a 2021-’22 (+26,7%). Anche in questo caso, l’incremento è consistente nel Mezzogiorno, dove i laureati nella “generazione Z” sono 22 ogni 100, a fronte dei 15 fra i “millennials” (+46,7%). Nel Centro-nord l’incremento – seppur significativo – è più contenuto, a conferma di un interesse crescente fra i coetanei del Mezzogiorno verso gli studi terziari.

Nell’ultimo anno disponibile, fatta eccezione per Campania e Sicilia – che però evidenziano progressi fra i più rilevanti – tutte le regioni meridionali presentano un Tasso di immatricolazione universitaria migliore rispetto alla media nazionale (55,7 immatricolati ogni 100 residenti con 19 anni di età). Abruzzo, Molise, Calabria e Basilicata hanno valori prossimi o superiori a 60 immatricolati ogni 100 diciannovenni.

Si evidenzia in quasi tutti i casi (eccetto Basilicata e Molise) una tendenza incrementale su base decennale superiore alla media nazionale, accentuata nelle cinque principali regioni meridionali per popolazione residente: Sicilia, Sardegna, Campania, Calabria e Puglia. Poiché si tratta di contesti caratterizzati da un’ampia e qualificata offerta di percorsi universitari, si può ritenere che un incremento così rilevante agli studi terziari derivi anche da altri fattori legati alla domanda. Si tenga conto che queste regioni includono i territori a maggiore e più persistente ritardo di sviluppo dell’Ue, con un progressivo indebolimento del sistema produttivo e dell’occupazione, soprattutto giovanile, che hanno sofferto in modo particolare gli effetti della Grande crisi del 2008 e – successivamente – della Pandemia.

L’incidenza di neo iscritti all’università sulla platea tipica (i diciannovenni) aumenta al crescere della disoccupazione e si riduce in presenza di un sistema economico più robusto, e viceversa. Presumibilmente, tali evidenze sottendono un qualche nesso con la particolare carenza di sbocchi alternativi post-diploma, in termini di opportunità lavorative, per i giovani del Mezzogiorno. Cosicché, la decisione di prolungare gli studi e di iscriversi all’università potrebbe sovente essere dettata anche da motivazioni riconducibili a una progressiva riduzione di alternative occupazionali.

Peraltro, fra gli universitari meridionali si rileva una minore regolarità di questo percorso di studi, sia all’atto dell’iscrizione sia, soprattutto, al conseguimento della laurea. Si è stimato che fra chi si diploma nel Mezzogiorno si verifichi un maggiore ritardo alla laurea, che si protrae di un ulteriore 16% circa se quest’ultima viene conseguita nel Mezzogiorno.

A ciò si associa una maggiore mobilità territoriale che caratterizza tali percorsi di studio. Per i giovani del Mezzogiorno, la migrazione universitaria – che si attiva soprattutto verso gli atenei settentrionali – assume proporzioni considerevoli: coinvolge oltre un caso su quattro all’atto dell’iscrizione, e oltre un terzo al conseguimento della laurea. Inoltre, il fenomeno della mobilità per studi universitari nel Mezzogiorno riguarda in misura leggermente superiore gli uomini rispetto alle donne.

Ma è soprattutto il successivo accesso al mondo del lavoro che differenzia la condizione dei giovani meridionali dagli altri coetanei. Tutti i parametri disponibili descrivono difficoltà maggiori, nei tempi e, soprattutto, nei luoghi in cui si riesce a trovare un lavoro. Sia a distanza di un anno che di cinque anni dalla laurea, solo la metà degli universitari meridionali lavora nella medesima ripartizione, contro tre quarti nel Centro e nove su 10 nel Nord Italia.

In definitiva, anche questa transizione appare più protratta e complessa nel Mezzogiorno, e sovente contrassegnata da una prospettiva migratoria non finalizzata e/o temporanea. Fermo restando che per gli individui l’istruzione terziaria aumenta considerevolmente le prospettive esistenziali, in primis la possibilità di svolgere un’occupazione di qualità e con salari più alti, questi esiti rischiano di produrre effetti selettivi non desiderabili e persistenti sui contesti di origine, in termini di dotazione complessiva di capitale umano.

Giovani e lavoro: le crescenti difficoltà nel Mezzogiorno. Il mercato del lavoro italiano negli ultimi anni ha risentito degli effetti strutturali di una lunga fase di stagnazione economica cui si sono succedute in rapida sequenza le ripercussioni critiche di due eventi di portata storica: la Grande crisi del 2008 – che ha avuto effetti protratti fino almeno al 2015 – e la Pandemia da Covid-19. Ambedue questi fenomeni hanno inciso sugli squilibri territoriali del mercato del lavoro, che – com’è noto – interessano soprattutto i giovani del Mezzogiorno.

Nel 2022 il tasso di occupazione rilevato fra i giovani italiani (33,8%) è di 15,4 punti inferiore rispetto alla media Ue27: ciò colloca l’Italia nella penultima posizione – prima della sola Grecia – per quota di occupati sulla popolazione 15-29 anni. Tale parametro risulta invariato su base decennale (era del 33,8% anche nel 2010), arco di tempo in cui il divario con l’Europa si è ampliato (era -11,7). Inoltre, nel 2022 l’Italia presenta un numero di giovani disoccupati relativamente consistente, pari al 18% del totale, che la colloca nei primi posti di questa non invidiabile graduatoria (terza dopo Grecia e Spagna). In questo caso, il trend discendente su base decennale (-2,6%) è stato inferiore a quello medio Ue (-6,2%).

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Sul piano generale, le tendenze più recenti relative al mercato del lavoro italiano sembrano evidenziare alcuni segnali positivi e una certa inversione di tendenza rispetto all’impatto della fase pandemica.

Dopo la forte riduzione del 2020 e la crescita contenuta nel 2021, nel 2022 il numero di occupati è aumentato in modo significativo (+545mila, +2,4%), attestandosi ai livelli del 2019. Si è registrata anche una forte riduzione del numero di persone in cerca di occupazione (-339mila, -14,3%), e degli inattivi, diminuiti per il secondo anno consecutivo (-484 mila, -3,6%) per effetto del calo delle forze di lavoro potenziali (-596mila, -19,4%), mentre risultano in aumento gli inattivi che non cercano e non sono disponibili a lavorare (+112mila, +1,1%). Nel 2022 si è ridotto, altresì, il numero di scoraggiati (-86 mila, -7,6%), di chi aspetta gli esiti di passate azioni di ricerca (-71 mila, -10,4%) e di chi è in attesa di tornare al proprio lavoro (-239mila, -48,9%).

Tuttavia, i principali divari nel mercato del lavoro restano piuttosto marcati (Prospetto 5). Il tasso di occupazione generale nel 2022 è del 60% circa, più basso nella popolazione giovanile (15-34 anni: 43,7%) e fra le donne (51,1%). Nel Mezzogiorno risulta occupato il 46,7% delle forze di lavoro complessive, in leggera crescita ma con oltre 13 punti in meno della media nazionale, oltre 21 dal Nord e 18 dal Centro Italia.

Il tasso di disoccupazione medio nazionale è dell’8,1%, aumenta visibilmente fra i giovani (14,4%) e nel Mezzogiorno – malgrado una certa riduzione – resta su valori molto elevati (14,3%). Divari territoriali significativi si riscontrano anche nel tasso di inattività, che peraltro nel 2022 fa registrare una riduzione particolarmente modesta, soprattutto nella ripartizione meridionale.

Il confronto inter-generazionale – in particolare fra “millennials e post-millennials” (20-34 anni nel 2022) e la componente di “transizione” (20-34 anni nel 2004) – consente utili approfondimenti su questo piano.

In termini generali, tutti i principali parametri “quantitativi” segnalano una progressiva riduzione dei livelli occupazionali, con squilibri accentuati nel Mezzogiorno. Nella fase storica più recente, la popolazione attiva afferente alla coorte generazionale oggetto di studio è costituita da poco meno di sei milioni di persone (5.971.744), a fronte degli otto milioni e mezzo circa (8.493.717) della generazione di confronto. La perdita è consistente: oltre due milioni e mezzo di unità, circa un terzo dei casi originari (-29,7%).

Sebbene il calo di popolazione attiva sia per la gran parte (circa quattro quinti) imputabile alla dinamica demografica (il “de-giovanimento” di cui sopra), esso è dovuto anche alla riduzione di circa sei punti del tasso di attività (66% fra i “millennials”; 71,8% nella precedente). Questo fenomeno appare particolarmente accentuato nei giovani del Mezzogiorno, fra i quali poco più di un caso su due entro i 34 anni di età si attiva per la ricerca di un lavoro, contro i tre quarti circa del Centro-nord.


tasso di occupazionedifferenza su Italia (*)variazione su 2021 (*)tasso di disoccupazionedifferenza su Italia (*)variazione su 2021 (*)tasso di inattivitàdifferenza su Italia (*)variazione su 2021 (*)
Maschi69,29,12,17,1-1,0-1,625,4-9,1-1,0
Femmine51,1-9,01,79,41,3-1,343,69,1-1,1
15-34 anni43,7-16,42,814,46,3-3,448,914,4-1,2
50 anni e più61,51,41,55,1-3,0-0,735,10,6-1,1
Nord68,18,01,75,1-3,0-0,928,2-6,3-1,1
Centro64,84,72,37,0-1,1-1,730,3-4,2-1,2
Mezzogiorno46,7-13,41,814,36,2-2,145,410,9-0,8
ITALIA60,11,98,1-1,434,5-1,1
Tassi di occupazione, disoccupazione e inattivitÀ per sesso, ripartizione geografica, clasSi di etÀ, popolazione 15-64 anni. Anno 2022. Valori percentuali . Fonte Istat.

Bisogna precisare che questa diversa tendenza appare solo in parte connessa al prolungamento del percorso di studi di cui si è detto. Difatti, se si considera la sola componente degli inattivi, la quota di giovani attualmente iscritti a un percorso di istruzione formale (nelle quattro settimane precedenti l’intervista) risulta visibilmente più consistente nel Centro-nord (60,5%) rispetto al Mezzogiorno (43,3%).

Al contrario, nella medesima componente di inattivi in quest’ultima ripartizione è molto più ampia la quota di cosiddetti NEET (Not in Education, Employment or Training), ossia di giovani non inseriti in un percorso scolastico o formativo, ma neppure impegnati in un’attività lavorativa: 43,1% dei 20-29enni inattivi del Mezzogiorno (poco meno di 478mila unità) contro i 26,5% del Centro-nord (circa 350mila giovani).

I tassi di attività più contenuti si rilevano in Sicilia e Calabria (49%), dove questo parametro risulta particolarmente basso soprattutto nella componente femminile (rispettivamente, 35,8% e 38%), e dove risulta parimenti elevata la quota di NEET (53% e 46,8%). Situazioni analoghe si segnalano in Campania (52,6%; 43,2% fra le giovani donne; 39,5% NEET) e Basilicata (56,1%; 42,3%; 32,3%), ma tutte le regioni meridionali si collocano al di sotto della media nazionale delle forze di lavoro, mentre nel Centro-nord tutte al di sopra.

Alla significativa riduzione delle forze di lavoro si associa un trend di portata analoga nella componente degli occupati, che a livello nazionale passano da oltre sette milioni (7.380.199) a poco più di cinque (5.170.552; -29,9%). Anche il calo degli occupati è pronunciato fra i giovani meridionali (-33,7%; +28,5% nel Centro-nord); esso risente del consistente calo demografico, ma ciò non è sufficiente a spiegarne l’entità. Attualmente, il tasso di occupazione dei “millennials” si attesta su valori contenuti, che nel Mezzogiorno superano di poco i quattro residenti su 10 in quella fascia d’età, con un differenziale negativo di circa 24,3 punti rispetto al resto del Paese. Il tasso di occupazione è molto basso fra le giovani donne del Mezzogiorno: 31,7% (59,3% nel Centro-nord), in ulteriore calo rispetto al periodo-base (IV trimestre 2004: 32,8%).

Anche in questo caso, le regioni più in ritardo sono la Calabria (tasso di occupazione 35,8%; 27,4% femminile), la Sicilia (37,2%; 27,5%) e la Campania (39,4%; 31,3%). Tutte le regioni meridionali si collocano al di sotto della media nazionale; tutto il Centro-nord (eccetto il Lazio) al di sopra.

La riduzione contestuale delle forze di lavoro e del tasso di occupazione – più accentuata in alcune regioni meridionali (Calabria, Campania, Sicilia), dove è particolarmente ampia la quota di NEET – sono indicative di difficoltà oggettive a collocarsi utilmente nel mercato, che si traducono tipicamente in una minore propensione a cercare lavoro. Non a caso, le principali motivazioni attribuite alla non occupazione si differenziano in modo netto su base territoriale: mentre nel Mezzogiorno si sottolinea complessivamente una carenza di opportunità lavorative effettive e stabili, nel resto del Paese si richiamano ragioni transitorie e sostanzialmente reversibili, talvolta legate anche a un iter di rafforzamento professionale.

La persistenza di un tale dualismo territoriale – ampiamente noto – trova conferma in altri parametri critici. Nel periodo considerato, il tasso di disoccupazione in questa specifica fascia d’età a livello nazionale si attesta al 13,4%, in crescita rispetto al periodo-base (13,1%). Nel Mezzogiorno la disoccupazione è particolarmente elevata (23,6%), soprattutto fra le giovani donne (27,4%; 15,1% in Italia), e nelle quattro principali regioni (Calabria 27,1%; Campania 25,2%; Sicilia 24%; Puglia 23,7%).

In termini tendenziali, il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno si riduce leggermente, ma ciò appare soprattutto il portato della consistente riduzione delle forze di lavoro. La quota di giovani inattivi che si dichiara alla ricerca di un lavoro è particolarmente consistente e tendenzialmente stabile nel tempo, come gli inoccupati, che si dichiarano alla ricerca di una prima occupazione (12,3% fra i “millennials”).

Al progressivo deterioramento della condizione occupazionale delle giovani generazioni di meridionali si associa anche un certo decadimento qualitativo del lavoro, per l’incremento dei lavori atipici o non standard, e di tutte le varie forme di precariato indotte dalle trasformazioni strutturali del mercato del lavoro e dall’andamento del ciclo economico. Infatti, accanto a una certa tendenza incrementale del lavoro subordinato rispetto a quello autonomo, si registra un aumento progressivo del lavoro atipico.

Questo fenomeno è diffuso soprattutto nelle attuali generazioni di giovani del Mezzogiorno, dove la quota di lavoro giovanile atipico è particolarmente ampia e ormai del tutto prevalente; in particolare in Calabria (67%), Sardegna (66,8%), Basilicata (63,3%), Sicilia (60,3%). Bisogna segnalare la crescita considerevole del lavoro part-time, che fra i giovani meridionali occupati supera un terzo dei casi (36,5%) e che raramente è frutto di una scelta, derivando quasi sempre (74,9% nel Mezzogiorno) dalla carenza di alternative “a tempo pieno”.

Dagli anni Duemila, si rileva anche una progressiva traslazione dell’età di ingresso nel mondo del lavoro, più accentuata nelle regioni meridionali. Il fenomeno è visibile nello spostamento in avanti dei principali parametri della struttura anagrafica degli occupati e della dilatazione particolarmente accentuata di quelli di durata della disoccupazione. Questi aspetti confermano la dinamica più generale di un progressivo differimento della transizione verso l’età adulta, fenomeno particolarmente accentuato nel Mezzogiorno.

Incerta transizione e i divari territoriali. Nell’attuale fase storica, molti tratti essenziali della condizione dei giovani “millennials” (compresi i “post-millennials”) sembrano evidenziare difficoltà serie e crescenti rispetto ai precedenti pari età (“transizione”). In primis¸ si osserva una significativa riduzione della quota di popolazione con meno di 35 anni, soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno. A ciò si associa un dilazionamento del percorso verso l’età adulta, di cui la cosiddetta “famiglia lunga” è l’aspetto più noto. Ne consegue una traslazione dei tempi di formazione di un proprio nucleo affettivo e della prima procreazione, che rischia di interferire con il ciclo biologico della fertilità e di alimentare il cosiddetto “inverno demografico”.

L’estensione dei percorsi di istruzione fra i “millennials” del Mezzogiorno è, naturalmente, un tratto positivo quanto inedito, giacché in questi territori da tempo i livelli di istruzione giovanile sono molto inferiori al Centro-nord, nonché a tutte le regioni europee.

La qualificazione del capitale di competenze è una condizione necessaria (benché non sufficiente) per lo sviluppo dei territori e delle potenzialità degli individui, per contrastare il declino socio-economico e costruire opportunità di lavoro, per la realizzazione personale e la mobilità sociale, per migliorare la partecipazione civica e la capacità di cura della propria salute.

Tuttavia, questo aspetto – che rappresenta una svolta lungamente attesa per il Mezzogiorno – oggi appare per molti versi l’esito di scelte obbligate, dovuto alla penuria crescente di alternative occupazionali adeguate. Non a caso, in queste aree risulta così ampia la quota di NEET; ovvero, all’opposto, i percorsi dei giovani meridionali nel sistema universitario, oltre che più diffusi, risultano tipicamente più lenti e “accidentati”, configurandosi non di rado come l’anticipazione di una scelta migratoria, dettata soprattutto da quanto sono in grado di offrire i territori in cui sono collocate le istituzioni universitarie. Fermo restando il grande valore del fenomeno in sé, nel medio-lungo periodo ciò potrebbe produrre l’effetto paradossale di alimentare una deprivazione ulteriore di capitale umano con competenze avanzate, indispensabile per il Mezzogiorno.

Il terzo elemento su cui si è posta l’attenzione è la crescente incertezza che caratterizza i “millennials” nel mercato del lavoro, particolarmente accentuata nelle medesime regioni caratterizzate dai suddetti fenomeni. Non è di certo una novità, ma i dati esaminati hanno consentito di sottolineare come la carenza di opportunità lavorative stabili e di buona qualità possa essere un fattore esplicativo di rilevanza primaria riguardo all’evoluzione della condizione delle nuove generazioni di giovani in queste aree. È emersa una relazione non trascurabile fra tassi di disoccupazione specifici e: impoverimento demografico; estensione critica delle transizioni familiari; prolungamento massivo dei percorsi di istruzione.

Il crescente decadimento, anche qualitativo, delle opportunità occupazionali non può che produrre un impatto significativo sul vissuto dell’attuale generazione di giovani meridionali, sia sul piano delle condizioni materiali sia sul grado di benessere soggettivo.

Riguardo al primo aspetto, fatto salvo lo scarto di reddito effettivo fra abitanti del Sud rispetto al resto del Paese, tutti gli “indicatori auto-valutativi” disponibili segnalano un peggioramento progressivo del tenore di vita percepito dai “millennials”, soprattutto se residenti nel Mezzogiorno. Sia nel confronto generazionale che in quello territoriale si rileva una valutazione sempre più critica delle condizioni economiche proprie e della famiglia, presumibilmente indicative di redditi progressivamente bassi e di un rischio crescente di povertà, che sembra alimentare preoccupazione e insoddisfazione.

A ciò si associa una più diffusa insicurezza verso il proprio futuro, che nel 2021 interessa oltre un giovane meridionale su cinque (21,8%; 15% nel Centro-nord). La quota è più contenuta in Piemonte (12,3%) e Veneto (14,9%), più ampia in Calabria (25,1), Sicilia (27,9%), Sardegna (22%) e Puglia (21,6%), con una riproduzione piuttosto fedele dei divari territoriali riscontrati sui domini di interesse. Tale atteggiamento, peraltro, appare condizionato in modo significativo dalle opportunità occupazionali e dai livelli di sviluppo locale: il “tasso di insicurezza” verso il futuro dei “millennials” è più elevato nei contesti regionali caratterizzati da maggiori squilibri nel mercato del lavoro e da un Pil pro-capite relativamente basso, e viceversa.

In definitiva, nel Mezzogiorno la condizione giovanile appare caratterizzata da difficoltà strutturali nel trovare una collocazione nella società adulta. È una generazione il cui tempo rischia di fermarsi a causa soprattutto dello squilibrio – in realtà proprio del succedersi delle generazioni – tra risorse per realizzare i passaggi socialmente attesi e le caratteristiche (numeriche innanzitutto) delle coorti che quei passaggi devono effettuare. La disoccupazione giovanile di massa nel Mezzogiorno è un tipico esempio di uno squilibrio di questo genere, che investe – come si comprende – sia le successive fasi della vita di parte significativa di una coorte generazionale, sia la dinamica più ampia dei contesti territoriali di appartenenza.

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