Giovani storie sarde: Matteo, l’artista dei suoni.

L’amore per la musica è qualcosa che spesso ci accompagna fin dalla nascita per poi esprimersi, col passare degli anni,  in  forme differenti. Vi è chi trascorre le proprie giornate con gli auricolari perennemente all’orecchio, chi impara a suonare uno strumento e  chi decide di dedicarsi anima e corpo alla musica stando seduto dietro un banco mixer dalle centinaia di comandi. Matteo Zedda, 26 anni, di Quartu, è un ingegnere del suono che, malgrado la giovane età, vanta un’esperienza professionale di rilievo e una stima generalizzata tra gli addetti al settore, in primis gli artisti che lavorano con lui. Tratto distintivo di Matteo è l’attenzione maniacale alla pulizia dei suoni e al bilanciamento delle frequenze, unita a un’attitudine multitasking che, se necessario, lo porta a riparare amplificatori, montare fari, assemblare cavi nell’arco di pochi minuti.

Abbiamo incontrato Matteo per conoscere più da vicino la sua professione e conoscere le motivazioni che lo hanno spinto a vivere la musica da fonico.

Come nasce il tuo rapporto con la musica?

Il mio rapporto con la musica nasce in giovane età. Credo di essere stato uno dei pochissimi “infanti” in grado di apprezzare fin dalla tenera età generi ostici anche per molti adulti fra i quali il prog e ad ascoltare, dai 5 anni in poi, gruppi come i Genesis, gli Emerson Lake and Palmer e, in ambiti meno prog, i Pink Floyd, per me un modello e un’ispirazione. Ho dei ricordi di quando ero bambino nei quali rivedo mio padre nella stanza ascoltare a tutto volume “Comfortably Numb”. Entrare nella stanza e sentire quella musica a quel volume mi regalava delle emozioni molto forti.

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Quali sono gli stimoli che spingono a un innamorato della musica a diventare ingegnere del suono?

Nel mio caso è partito tutto dalla curiosità. All’età di 14 anni ho comprato il mio primo mixer. Mettere mano al suono, modificarlo, capire certe dinamiche sinceramente incuriosisce ma il tutto, anche qui, è legato ai miei primi anni di vita. Ricordo che quando si andava ai concerti il mio posto preferito era accanto al gabbiotto del fonico. Da li potevo ammirare quel “festival” di manopoline, luci, display  che catturava la mia attenzione. Crescendo ho mantenuto quella posizione d’ascolto finché poi è diventata la mia postazione di lavoro.

Che emozioni si provano durante uno spettacolo vissuto dietro un banco mixer?

Stando dietro un banco mixer si provano differenti sensazioni. Quelle positive si provano  poco dopo l’inizio quando sfuma l’ansia derivante dall’avere nelle proprie mani le responsabilità di un live. Vi è poi l’eccitazione di avere di fronte a te un impianto enorme (non in tutti i casi ovviamente) sapendo che da te dipende il farlo funzionare al meglio gestendo nel modo giusto decine di migliaia di watt. È una sensazione impagabile. L’ansia di cui parlavamo prima è inevitabile. Rovinare un live vuol dire rovinarti la carriera. Tuttavia, quando si fa questo lavoro è necessario imparare a conviverci e a contrastarla.

Quanto è difficile dialogare con gli artisti nella tensione di uno spettacolo imminente?

È un rapporto molto complicato. L’artista tende a patire un’ansia eccessiva rispetto a noi fonici. Facendo questo lavoro quotidianamente abbiamo imparato a gestire la tensione con molta semplicità grazie a un problem solving estremamente sviluppato. L’artista tende a farsi influenzare da fesserie come un semplice cavo del microfono malfunzionante che può essere sostituito facilmente ma che, ciò nonostante,  gli causa momenti di puro terrore. Per questo da parte nostra è importante essere sempre professionali, cortesi e capaci di trasmettere sicurezza anche quando l’artista non è una persona particolarmente piacevole.

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Descrivici una tua giornata di lavoro tipo

La mia giornata lavorativo tipo può essere riassunta in queste fasi: carico della strumentazione  con relativo controllo preliminare; il viaggio, che porta via sempre molto tempo; montaggio della strumentazione, durante la quale scopri se hai dimenticato qualcosa; pranzo  seguito dal sound check, assistenza ad eventuali tecnici esterni al seguito degli artisti che magari non conoscono la strumentazione; pulizia e messa in ordine del palco che deve essere sempre bello a vedersi malgrado la presenza di strumentazione e cavi; Dopo di che c’è lo spettacolo vero e proprio, seguito dallo smontaggio, dal ricarico e dal ritorno a casa.

Quale è stata la soddisfazione più grande che ti ha regalato questo mestiere?

Il solo fatto di accendere e far suonare l’impianto mi regala delle soddisfazioni enormi. È chiaro che diventa difficile far quadrare tutto durante un’esibizione live ma la vera soddisfazione avviene quando ciò che appaga me appaga anche chi sta sul palco e chi ascolta perché significa che tutto è stato fatto nel modo giusto.

Pensi che la musica dal vivo continuerà a esistere o verrà soppiantata da dee jay set o play list?

Di questi tempi è difficile fare delle previsioni  perché ci sono in gioco dei meccanismi che potrebbero modificare il tutto. Dal punto di vista economico è molto più fattibile un dee jay set piuttosto che un live con un gruppo, cosa molto più complessa e difficile da gestire. Per quello in molte circostanze si preferisce optare per un dee jay set. È anche vero che è il pubblico a decidere e io, da ascoltatore, non sostituirei mai un live con un dee jay set che a mia avviso può avere solo una funzione di contorno, a meno che non si stia facendo un festival di musica elettronica. Mi auguro che la musica dal vivo mantenga il proprio ruolo. È un campo che non può morire.

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L’8 D è il futuro o una bolla?

L’8 D da un punto di vista tecnico non è niente di eclatante. La musica multi canale esiste da parecchio tempo ed è un genere che va ascoltato con i giusti supporti e non con semplici plug in come avviene oggi nel cosiddetto 8 D che, per me, resta una semplice moda momentanea e niente di più.

Progetti per il futuro?

I miei progetti per il futuro sono gli stessi che mi hanno spinto a iniziare, proseguire e migliorarmi. Il miglioramento personale viene prima di tutto il resto. I ruoli di responsabilità richiedono competenze. Maggiore è il miglioramento maggiori sono i risultati. Qualsiasi percorso, lavorativo o non lavorativo, non può prescindere da obiettivi di crescita. Non amo le situazione statiche e desidero crescere, crescere, crescere. Magari un giorno non sarò in Italia perché non mi sentirò adeguatamente valorizzato. Non lo si può sapere. Sicuramente non metto limiti alla mia crescita personale.

foto Marina Federica Patteri, riproduzione riservata

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