Epatite C ancora sconosciuta, da Milano parte il tram che informa.

L’epatite C, questa sconosciuta. Eppure si può riconoscere con un test diagnostico gratuito dedicato ad ampie fasce di popolazione, e soprattutto si può curare. Informazioni sconosciute alla maggior parte degli italiani, che su questa malattia sanno ben poco. Lo evidenzia l’indagine demoscopica “Italiani e epatiti” di AstraRicerche, applicata su un campione di 1.000 italiani per Gilead Sciences che in buona sostanza rivela che della malattia hanno sentito parlare 7 italiani su 10, ma solo il 20% dimostra di conoscerla davvero. 

Ecco allora che l’informazione diventa cruciale e con essa ‘Epatite C. Mettiamoci un punto’, la campagna multicanale di sensibilizzazione per favorire una maggior conoscenza dell’infezione da HCV e dell’importanza del test di screening. La campagna inaugura oggi il suo viaggio a Milano (in concomitanza con il Congresso Easl, il più importante evento scientifico Europeo nell’ambito dell’epatologia) attraverso il ‘Tram della sensibilizzazione’, che porta nelle vie del centro del capoluogo lombardo materiali informativi sull’epatite C e sulle modalità di trasmissione, invitando la popolazione ad eseguire il test di screening.

A supportare la campagna uno spot radiofonico, il coinvolgimento di influencer e di un sito per conoscere l’epatite C e le sue modalità di trasmissione a partire da quattro storie di persone comuni che grazie al test hanno scoperto e curato l’infezione. 

Sempre secondo l’indagine AstraRicerche sull’epatite C oltre il 40% dichiara di saperne poco o niente (42,5%) e il 37% dice “così così”. Ancora, 6 italiani su 10 sono a conoscenza di un test diagnostico per rilevare il virus Hcv, ma solo 4 su 10 sanno che oggi esiste la possibilità, per i nati tra il 1969 e il 1989 e per alcune categorie di persone a particolare rischio, di sottoporsi gratuitamente a questo test.

Troppo pochi, infine – solo 4 su 10 – coloro a conoscenza del fatto che l’epatite C, oggi, si può curare. La fotografia sviluppata dai risultati mette in luce l’importanza di promuovere una maggiore informazione per risolvere un vero e proprio problema di salute pubblica: sono infatti migliaia le persone che hanno contratto il virus ma non lo sanno, il cosiddetto sommerso. L’assenza di sintomi, che si può protrarre anche per anni, non mette in allarme chi lo ha contratto che quindi non fa il test e non si cura. In questo modo il virus continua a passare da persona a persona e, in chi lo ha contratto, compromette progressivamente le funzionalità del fegato, arrivando anche a provocare cirrosi e tumore epatico. 

LEGGI ANCHE:  Antitrust: sanzione di 5 milioni a Intesa Sanpaolo RBM Salute e 1 milione a Previmedical S.p.A per pratiche commerciali scorrette.

La campagna ‘Mettiamoci un punto’ si inserisce in un più ampio contesto di lotta alle epatiti, con la volontà di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo Oms di eradicazione del virus Hcv entro il 2030. “Sebbene l’epatite C sia oggi una patologia curabile, c’è ancora un’importante quota di sommerso – sottolinea il direttore dell’Epatologia del Papa Giovanni di Bergamo e della Gastroenterologia di Milano Bicocca Stefano Fagiuoli -. In parte perché questa infezione può agire silenziosamente anche per decenni, danneggiando progressivamente il fegato e provocando una cirrosi che può trasformarsi in tumore, in parte perché non c’è adeguata consapevolezza sulle modalità di trasmissione del virus. È fondamentale, dunque, informarsi e fare il test. In alcune regioni- continua Fagiuoli- è attivo un programma di screening gratuito dell’epatite C per i nati tra il 1969 e il 1989 che bisognerebbe allargare alla popolazione generale. Investire in uno screening di tutta la popolazione significherebbe infatti ridurre costi economici e sanitari in soli 4 anni, oltre a ridurre il carico di malattia e di morte, migliorando di conseguenza la qualità di vita delle persone”. 

LEGGI ANCHE:  GAL Ogliastra: 1,2 milioni per le imprese agroalimentari.

Il virus HCV si trasmette principalmente attraverso il contatto con sangue infetto, e quindi con la condivisione di oggetti per la cura personale come rasoi, spazzolini da denti, strumenti per la manicure o pedicure, lo scambio di aghi o siringhe, l’esecuzione di tatuaggi o piercing con aghi non sterili.

Anche coloro che hanno subito trasfusioni di sangue o trapianti d’organo prima degli anni ’90 sono a rischio poiché fino a quel momento il virus non era conosciuto. Meno frequente l’infezione per via sessuale e da madre a figlio durante il parto. 

Sono molti quindi i comportamenti o le pratiche che possono portare all’infezione da HCV, eppure solo 1 su 10 tra gli intervistati ritiene di essere un soggetto potenzialmente a rischio epatite C. Una falsa percezione che si rispecchia nella convinzione che a rischio epatite C siano solo specifici gruppi di persone: gli intervistati mettono al primo posto i tossicodipendenti per via iniettiva (46,3%), in seconda posizione, le persone che si sono sottoposte a trasfusione o trapianto d’organo (42,90%), al terzo gli alcolisti (30,57%). Solo 2 italiani su 10 associano tatuaggi (24,8%) e piercing (23,5%) al rischio epatite C. Quota che diminuisce drasticamente per le pratiche estetiche (13,6%). 

“L’esposizione a procedure medico-chirurgiche prima degli anni Novanta rappresenta il più importante fattore di rischio per l’infezione da HCV, che non è un problema confinato ai soggetti con storia di tossicodipendenza – spiega la specialista in Gastroenterologia ed epatologa alla Fondazione IRCCS Ca’ Granda-Ospedale Maggiore di Milano, Roberta D’Ambrosio -. Infatti, il virus è stato scoperto tardivamente, e fino al 1992 – va avanti D’Ambrosio – non sono stati disponibili test per la sua identificazione e per la conseguente messa in sicurezza delle trasfusioni, degli interventi chirurgici e di altre procedure quali la dialisi. Ad oggi ‘il rischio di trasmissione dell’infezione è confinato a qualche procedura estetica (come tatuaggi o interventi estetici) eseguita in ambienti poco controllati e a soggetti che utilizzano sostanze ricreative. Ecco perché è fondamentale agire a livello nazionale con uno screening esteso, che interessi specialmente i soggetti di età superiore ai 33 anni”. 

LEGGI ANCHE:  Epatite C: in Italia record di pazienti trattati. Bassa adesione a screening.

L’indagine infine mette in evidenza come la propensione a fare il test aumenti esponenzialmente quando le persone vengono informate correttamente, passando dal 29,6% al 45,5% dopo aver letto un breve testo informativo su cosa è e come si trasmette la patologia.

“Ecco perché – sostiene il presidente di EpaC ETS Ivan Gardini – sono fondamentali le campagne di informazione locali e nazionali volte ad aumentare la conoscenza della popolazione generale su questa forma di epatite, in quanto solo dalla consapevolezza dei comportamenti a rischio può nascere il sospetto di aver contratto l’infezione e quindi la volontà di sottoporsi al test diagnostico che non deve fare paura, perché oggi per l’epatite C esiste una cura efficace”. 

Informazione e sensibilizzazione sono necessari anche per combattere stigma e falsi miti, ancora diffusi tra gli Italiani. Circa 1 intervistato su 10 (10,8% di chi conosce le epatiti) afferma infatti che si devono evitare contatti con persone che vivono con epatite C; una percentuale che sale al 22% presso i maschi 18-29enni. Circa 4 su 10, inoltre, pensano erroneamente che ci sia un vaccino per l’epatite C e non sanno, invece, che esiste una cura. “Sono molto felice del lancio di questa nuova campagna. Ancora una volta siamo al fianco della comunità scientifica e delle Associazioni di pazienti – afferma il direttore medico di Gilead Sciences Italia Carmen Piccolo – per costruire insieme un mondo senza epatite C”.