Danzatori sudamericani e giapponesi per lo spettacolo di “Primavera a Teatro”.

Due cappucci neri sul volto e un cartello con la scritta “50 milioni”, come il numero dei morti di tutte le occupazioni e di tutte le dittature in America Latina. Immagini forti, in cui la drammatica forza del movimento coreografico diventa rappresentazione simbolica della tortura e del grande dolore ancora vivo in tutto il continente. Ma anche un’immagine dei sentimenti, solidi, della voglia di libertà e dell’amore che provano l’una per l’altro i due danzatori cileni Barbara Hernandez e Lukas Lizama, che sabato hanno presentato in Sala Estemporada a Sassari, per Primavera a Teatro, il loro spettacolo-denuncia “Human – Figli della dittatura”, assieme alla compagnia partenopea ArtGarage.

Tutto questo in una serata in cui anche l’emozionante “Butterfly” proposta da Ersiliadanza, interpretata in apertura dall’artista giapponese Midori Watanabe, si sottrae con un sussulto di ribellione a un destino apparentemente inevitabile e diventa un simbolo di riscatto della condizione femminile.

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Barbara Hernandez e Lukas Lizama (27 e 24 anni) hanno studiato in due diverse università di Santiago e hanno subito iniziato una collaborazione in vari spettacoli. Si sono sposati e poi trasferiti in Italia dove ora concentrano la propria attività: «Spesso si fugge dal proprio paese per necessità – hanno spiegato entrambi – perché si è stanchi della condizione di vita, e noi volevamo esprimere queste sensazioni nel modo che sappiamo fare meglio, cioè ballando».

Efficaci coreografie si sono succedute quali metafore della sofferenza, della morte, della ricerca di fuga, in un chiaroscuro tra luci e ombre dove ai cappucci e alle maschere di Anonymous si sottraggono due semplici volti di esseri umani. Voci di poeti e scrittori si intrecciano a una musica che diventa sempre più forte, quasi a voler camuffare le urla dei prigionieri torturati.

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“Di solito le persone cercano di dimenticare il dolore, ma la tortura è una cosa che sta nella nostra società, è intrinseca – hanno affermato ancora –. Conosciamo genitori, zii, cugini di tanti nostri amici che sono stati torturati dal regime di Pinochet”. Nel pomeriggio i danzatori latinoamericani hanno presentato una masterclass negli spazi di Elledance di Luciana Temussi.

Molto apprezzata è stata anche l’esibizione portata in scena da Midori Watanabe, che ha condotto gli spettatori in un’atmosfera quasi fiabesca, profondamente nipponica, rivisitando in “Butterfly” una delle opere più intense di Giacomo Puccini. La presenza di un kimono sospeso, rivolto al pubblico come uno stendardo, è stata fin dall’inizio un catalizzatore verso un mondo di tradizionalismi che sembra rimarcare il passato, ma non troppo: «Una cosa strana è che appena metto il kimono, il mio atteggiamento cambia, in automatico, anche se vivo in Europa da tanti anni – ha spiegato Watanabe – non so come dire, sento che devo rispettare il vestito. Anche il mio modo di muovermi, di sedermi, cambia. Mi succede anche all’interno dello spettacolo».

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Nella composizione, Butterfly segue il suo destino, si suicida facendo harakiri. Ma subito dopo, a sorpresa, in un vero e proprio “rewind” da videoregistratore, nel quale i movimenti della danzatrice ripercorrono a ritroso le ultime scene a grande velocità, la protagonista riesce a tornare indietro nel tempo e a decidere da sé il proprio futuro, combattendo e tentando di scardinare una cultura di sottomissione.