Kamala e il fallimento dell’incipriamento woke.

Immaginate una persona nata in un contesto privilegiato da genitori benestanti. Dopo la laurea entra in magistratura e diventa procuratrice distrettuale. In tale posizione si crea la fama di magistrato tutta “legge e ordine” per vie di sentenze draconiane che fa comminare a piccoli criminali di quartiere.

Un bel giorno decide di entrare in politica e, sorpresa, si schiera nell’area prossima all’estrema sinistra. In poco tempo viene eletta in Senato e, subito dopo, decide di partecipare alle primarie presidenziali. L’esperienza si rivela tragicomica ed è costellata di figuracce ai dibattiti pubblici e di consensi prossimi allo 0%. Ciononostante, grazie al suo essere donna e di colore, appare ai Talebanə dell’intersezionalità come la candidata vicepresidente ideale da affiancare a una vecchia ciabatta bianca della politica americana.

La vecchia ciabatta vince le elezioni e la nostra diventa vicepresidente. Ci si aspettano da lei grandi cose e invece si rivela una completa incapace. Col suo esempio avrebbe dovuto ispirare le nuove generazioni di americani e invece, con le sue gaffe e la sua inadeguatezza, ispira soltanto nuove generazioni di meme. Viene così mandata, politicamente parlando, in panchina.

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Quattro anni passano in fretta e si avvicinano nuovamente le elezioni. La vecchia ciabatta, però, inizia a patire vistosamente il peso dell’età. Gli avversari, nel frattempo, ripropongono il marpione che ormai da 8 anni domina quel campo. Anche lui è discretamente bollito ma al confronto con l’avversario pare sprizzare giovinezza da tutti i pori. Si decide così di congedare sbrigativamente la vecchia ciabatta e di puntare su un cavallo più “performante”.

La scelta cade sulla protagonista del nostro racconto. Nei precedenti quattro anni si è rivelata una totale incapace ma è donna e nera (ancorché appartenente, da parte di madre, alla casta dei bramini e figlia di un importante finanziere internazionale). Questo, nell’orwelliano dibattito interno alla sinistra woke, ha reso impossibile che le si preferisse un candidato più adeguato (non che ci volesse molto) specie se si fosse trattato di un maschione bianco. Ecco, quindi, che la nostra protagonista si trova a concorrere per il ruolo più importante al mondo.

Immediatamente, l’incapace che nelle occasioni che contavano veniva tenuta da parte per evitare che facesse danni, diviene per la stampa fiancheggiatrice (assolutamente maggioritaria in America e in Europa) l’incarnazione stessa della speranza in un futuro di progresso e prosperità. Le si attribuiscono carisma e autorevolezza. Se ne ricordano fondamentali battaglie politiche in età giovanile. Si individuano i segni della predestinazione in una sua presunta partecipazione, da bambina, a una marcia di Martin Luther King. C’è chi giura, perfino, di averla vista sbarcare a Omaha Beach alla testa di un plotone della prima ondata. Non basta. Se ne lodano la postura, il portamento, l’eleganza. La sua risata, non più sguaiata, è vista come espressione sincera di un ottimismo neo-kennediano. Naturalmente, coloro che votano per lei sono l’espressione sana della società. Colti, consapevoli, empatici, attenti al benessere animale.

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Gli avversari, manco a dirlo, sono l’opposto. Bifolchi sdentanti e violenti, sociopatici ubriaconi che di giorno leggono la bibbia tenendo in grembo il fucile e di notte bruciano croci di fronte alle case di afroamericani ed ebrei. Alla loro testa, il tetro plutocrate pornografo, drogato di cibo spazzatura, incarnazione di quanto di peggio la politica potesse produrre. In altre parole, la grande frontiera e la Statua della Libertà contro fascismo e KFC. Una partita senza storia. E invece no. Vincono il fascismo e KFC.

Se c’è un insegnamento che si può trarre dalle ultime elezioni presidenziali americane è che la politica, per quanto in crisi, è ancora in vita e non può essere sostituita da comunicazione, marketing elettorale e intersezionalità. Trump, nel complesso, partiva da una posizione tutt’altro che di forza debordante. Il suo indice di gradimento alla vigilia delle elezioni non era certamente alle stelle e, forse, sarebbe stato sufficiente un buon candidato per sconfiggerlo. I Democratici, invece, nel tentativo ottuso di imporre una politica fatta di identità più che di programmi, sono stati pesantemente puniti. Scegliendo Harris e tentando di farla apparire per quello che non è mai stata e mai sarà, hanno agevolato in misura probabilmente decisiva la corsa di Trump.

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Foto credit Di Quinn Dombrowski from Berkeley, USA – Kamala Harris, CC BY-SA 2.0,