Coesione nel Mezzogiorno: 20 anni di mancate occasioni.

Nel corso degli ultimi due decenni la geografia dell’Unione europea (Ue) è mutata sensibilmente con l’adesione di nuovi Paesi e l’uscita della Gran Bretagna. All’interno degli stessi Stati membri la struttura amministrativa e territoriale attraverso cui è ripartito il territorio dell’Ue a fini statistici (Nuts) si è modificata con la creazione di nuove aree amministrative e/o con la variazione dei loro confini. È comunque rimasto costante il tentativo dell’Ue di sostenere la propria coesione territoriale attraverso politiche e investimenti tesi a far convergere i territori degli Stati membri.

Tale obiettivo è perseguito attraverso la politica di coesione, che è la principale politica di investimento dell’Ue con la finalità di modifica strutturale dei contesti economici dei territori. Il riferimento territoriale specifico sono quindi le regioni e i relativi confini, anziché gli Stati membri e i confini nazionali.

La politica di coesione, con riferimento al periodo 2021-2027, assorbe 330 miliardi di euro (prezzi 2018), il 30,7% delle risorse stanziate nel Quadro finanziario pluriennale (QFP). L’allocazione di queste risorse segue, da sempre, una logica principalmente attribuibile al “peso” pressoché esclusivo di un solo indicatore: il Pil pro capite.

Le regioni europee, a seconda della distanza rispetto alla media del Pil pro capite Ue a parità di potere di acquisto, sono state suddivise nelle seguenti categorie: “Obiettivo 1/Obiettivo 2” (fino al 2000-2006), “Convergenza/Competitività” (nel periodo 2007-2013), “Regioni meno sviluppate/Regioni in transizione/Regioni più sviluppate” (nei cicli 2014-2020 e 2021-2027). In base alla categoria di appartenenza sono state distribuite le risorse della politica di coesione tra i vari territori

Le regioni meno avanzate, che, solitamente corrispondono a quelle più periferiche, lontane dai grandi centri economici e dalle direttrici commerciali. Sono queste le principali regioni destinatarie delle risorse finanziarie strutturali delle politiche di coesione, in quanto territori rimasti indietro rispetto alla crescita della Ue. I benefici del mercato unico non si sono distribuiti in modo uniforme ma, ancor più durante le crisi economiche, si sono concentrati favorendo la competitività internazionale di alcuni territori.

La Polonia, la Spagna, l’Italia e la Romania sono gli Stati membri più coinvolti, ma con evidenti divergenze in termini di dinamica. La Spagna, la Polonia, ma anche la Romania, hanno visto in tale fase ridurre la popolazione interessata; al contrario l’Italia ha mantenuto sostanzialmente stabile il suo coinvolgimento in termini di popolazione e lo ha anzi ampliato in termini di territorio.

Nel corso di questa fase di programmazione la popolazione di riferimento è andata riducendosi pressoché ovunque (in particolare in Germania, Spagna e Polonia) mentre è sostanzialmente rimasta stabile in Italia.

Degli investimenti attuati dalle politiche di coesione nel corso del tempo, hanno beneficiato in particolare aree e regioni di alcuni Stati membri (Polonia, Italia, Spagna e Romania). I risultati ottenuti da tali politiche sono oggetto di numerose analisi, differenziate a seconda del periodo temporale di riferimento e dei singoli Paesi. Sapere cosa sarebbe successo se queste policy non fossero state applicate non è semplice ed è oggetto di un ampio dibattito e di analisi controfattuali, ma non è argomento diretto di questo lavoro.

Oggi, a dispetto del passato, è possibile comunque avere un quadro statistico e informativo nettamente più ricco. Sono infatti disponibili dati e informazioni pressoché completi sugli ultimi tre cicli di programmazione. È quindi possibile osservare, attraverso l’andamento del Pil pro capite a parità di potere di acquisto se vi sono stati processi di convergenza fra le regioni e i territori degli Stati membri, favoriti o meno anche dalle politiche di coesione.

In un’ottica di lungo periodo, le disparità tra i sistemi economici regionali europei (ben maggiori rispetto a quelle esistenti tra le nazioni) avrebbero dovuto seguire un processo di convergenza economica nel quale le regioni più povere sarebbero dovute crescere a tassi maggiori di quelle inizialmente più ricche (la cosiddetta beta-convergenza).

Tra il 2000 e il 2021 un processo di avvicinamento sembrerebbe essersi parzialmente realizzato: sono cresciute di più quelle regioni che partivano da livelli più bassi di reddito (espresso in termini di Pil pro capite).

Al contrario, tassi di crescita medi annui del Pil pro capite nettamente più modesti sono stati realizzati dalle regioni economicamente più avanzate (II quadrante, in basso a destra): questi territori potrebbero essere definibili come “regioni avanzate economicamente mature”. Queste aree rappresentano una parte rilevante e talvolta totalitaria, in termini di popolazione dei Paesi della “Vecchia Europa”: è presente in queste regioni il 68% della popolazione italiana, il 71% della popolazione francese, il 67% della popolazione tedesca e oltre il 90% di quella austriaca e olandese.

Nel I quadrante (in alto a destra), invece, si trovano le regioni economicamente avanzate che sono state capaci anche di realizzare dei tassi di crescita del Pil pro capite a parità di potere di acquisto superiori alla media Ue. È possibile definire questi territori come “super stars”. In queste aree, ritroviamo il 75% della popolazione danese, l’82% della popolazione irlandese ma anche il 27% della popolazione belga e il 15% della popolazione tedesca.

Infine, vi sono i territori definibili in “trappola dello sviluppo”, ossia quelli che nel 2000 non rientravano né fra le aree a minor reddito di quella che sarebbe stata nel 2021 l’Ue27, né che potevano essere considerate economicamente avanzate. Queste regioni hanno visto il loro Pil pro capite a parità di potere di acquisto crescere molto meno rispetto al dato medio europeo. In questi territori ritroviamo il 72% della popolazione portoghese, il 61% della popolazione greca, il 49% della popolazione spagnola e poco meno di un terzo della popolazione italiana.

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Interessante è osservare come emerga da questi dati l’incapacità del modello di crescita economica mediterraneo di esprimere delle “super stars” ma forse anche delle regioni convergenti.

Il processo di convergenza, seppur interrotto e attenuato dalle crisi economiche del 2008 e del 2011 (quando molte regioni classificate come meno sviluppate e/o in transizione sono cresciute più lentamente della media Ue), sembra essersi manifestato in modo molto variegato fra le regioni.

Mentre le regioni “in convergenza” sono state in grado di sfruttare le nuove opportunità, altre sono state colpite da perdite di posti di lavoro, stagnazione dei salari e contrazione delle quote di mercato a causa della concorrenza a basso costo che si è vieppiù spostata in settori tecnologicamente più avanzati (soprattutto dell’Europa orientale, CEPS 2018). Mentre nell’Europa orientale diverse regioni hanno visto crescere in modo sostenuto il proprio Pil pro capite, in altre aree dell’Europa mediterranea si è avuto un andamento meno convergente.

Sono numerosi i territori (77, pari a 144 milioni di abitanti) che si distinguono per aver ridotto il proprio Pil
pro capite rispetto a quello medio composto dagli attuali 27 Paesi membri dell’Ue (in rosa). Al contrario le regioni contrassegnate in verde (quelle capaci di migliorare il proprio differenziale rispetto alla media Ue) risultano essere complessivamente meno numerose e molto più concentrate nelle due classi estreme: nei territori degli Stati membri meno sviluppati del 2000 (Est Europa) e nelle regioni già economicamente avanzate.

Osservando tale matrice, in termini di popolazione, considerando i residenti nel territorio Ue27 al 2021, è possibile osservare come nelle regioni con un Pil pro capite inferiore al 50% della media Ue27 vi fossero 22 milioni di abitanti, mentre oggi tale numero è superiore ai 75 milioni di abitanti; analogamente nelle regioni più “avanzate” quelle con un Pil pro capite superiore al 120% della media Ue27, si sia passati da 109 milioni a 152 milioni di abitanti .

Fra le economie regionali particolarmente penalizzate da questo processo di mancata convergenza, oltre a quella della Grecia, che hanno subito la grave crisi economica del 2011-2015, ritroviamo quelle della Francia, dell’Italia e della Spagna

Altrettanto indicativo del “mancato” processo di convergenza è il dato che emerge dall’osservazione del coefficiente di variazione che misura il grado di disparità interno ai singoli Stati membri e fra tutte le 242 regioni (Nuts2) che compongono l’Ue27.

Nell’Ue27 le divergenze territoriali si sono ridotte fino alla prima grande crisi economica del secolo (2008), per poi rimanere sostanzialmente stabili, evidenziando una tendenza a crescere negli ultimissimi anni. Al contrario, le disparità all’interno di alcuni dei principali Stati membri evidenziano segnali opposti. In Germania sembra esservi stata una progressiva riduzione delle disparità territoriali interne, riscontrabile attraverso una riduzione progressiva del coefficiente di variazione; in Spagna le differenze territoriali sembrano essersi contratte fino al 2006-2007, per poi tornare ad ampliarsi negli anni successivi, così come in Francia dove dopo un’analoga riduzione fino al 2006, vi è stata una sostanziale stabilità fino al 2017. In Italia invece le disparità all’interno del Paese sono sostanzialmente rimaste stabili fino alla crisi economica del 2009 per poi crescere successivamente.

La geografia, tradizionalmente letta con le categorie del centro e della periferia, è andata via via complicandosi, con crescenti dinamiche divergenti interne sia al suo “core”, sia alla sua periferia.

Le regioni italiane destinatarie della maggior parte degli investimenti delle politiche di coesione, quelle prima definite “Obiettivo 1” (fino al 2000-2006), poi “Convergenza” (nel periodo 2007-2013) e infine “Regioni meno sviluppate” (nei periodi 2014-2020 e 2021-2027), accomunate dall’avere un Pil pro capite inferiore al 75% della media Ue, sono solo parzialmente mutate nel corso del tempo.

Tali mutamenti, più che a seguito degli incrementi di reddito regionali generati da un reale processo di convergenza, sostenuti anche dalle politiche di coesione, sembrerebbero essere stati determinati dall’ampliamento dei confini geografici dell’Unione.

Mentre nel ciclo di programmazione 2000-2006 la media del Pil pro capite Ue era composta dai 15 Paesi dell’Europa occidentale, nel secondo ciclo tale media è diventata a 24 Paesi e poi a 27 (con Regno Unito e senza Croazia nel ciclo 2014-2020; con Croazia e senza Regno Unito per il ciclo 2021-2027).

L’ingresso di Paesi e regioni dell’Est Europa con un Pil pro capite piuttosto basso ha comportato un abbassamento del Pil pro capite medio dell’Ue, con la conseguenza che alcune regioni che prima risultavano al di sotto della soglia prefissata (75% della media Ue) si sono ritrovate al di sopra. Tale “effetto statistico”, ha determinato la fuoriuscita della regione Basilicata dalla categoria delle regioni “meno sviluppate”, rientrando in un regime transitorio definito “phasing-out”, perché risultava avere un Pil pro capite superiore al 75% della media Ue, ma inferiore al 75% della media dell’Ue15.

In realtà, il processo di convergenza delle regioni italiane classificate come meno sviluppate (pressoché quasi tutto il Mezzogiorno ad eccezione dell’Abruzzo) non sembrerebbe essersi verificato, avendo queste regioni continuato a crescere sempre meno di qualsiasi media Ue, al punto da poter essere considerate tutte insieme come l’area più vasta e popolosa di arretratezza economica dell’Europa occidentale.

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In queste regioni, la doppia crisi economica del 2008-09 e del 2011-13 non è stata praticamente mai intervallata da una fase di ripresa economica, e anche nel periodo successivo il tasso di crescita medio annuo del Pil pro capite, è stato inferiore rispetto al dato nazionale ed europeo con la sola eccezione delle sue regioni più piccole.

Fra l’altro, in un’ottica di sistema Paese, risulta altrettanto anomala, la dinamica di crescita delle regioni italiane economicamente più avanzate, che si sono contraddistinte per un processo di lento ma progressivo allontanamento dalle altre regioni simili dell’Ue. In un’ottica di dinamica centro-periferia, è possibile osservare come da una parte le regioni “periferiche” italiane siano rimaste tali, dall’altra le nostre regioni “centrali” in termini di reddito abbiano vissuto un progressivo allontanamento dal “centro” europeo, registrando tassi di crescita medi annui fra i più bassi, così da perdere non solo il loro effetto traino verso il resto dell’Italia ma anche non mostrandosi capaci di agganciare il traino delle locomotive europee.

Tale dinamica appare nitidamente se si osserva la classifica delle regioni europee per Pil pro capite in ppa. Se durante il ciclo di programmazione 2000-2006 erano ben cinque le regioni italiane collocate fra le prime 25 di quella che è oggi l’Ue27 (la provincia autonoma di Bolzano/Bozen era al 14° posto, la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste era al 17°, la Lombardia al 20° posto, la provincia autonoma di Trento era 21° e il Lazio al 23°), nel 2021 risulta essere rimasta in tale raggruppamento solo la provincia autonoma di Bolzano/Bozen . Considerevole è stata la perdita di posizioni in classifica delle seguenti regioni: l’Umbria (-60 posizioni) e il Lazio, Piemonte, Liguria, Toscana e Molise che perdono ben oltre 40 posizioni in graduatoria.

Nel corso degli ultimi quattro anni, favoriti dalla fase di investimenti post Covid, qualcosa però sembra essere parzialmente mutato: non solo parte di questi territori economicamente avanzati sembrano crescere ad un ritmo superiore alla media europea, ma anche intere regioni hanno fatto registrare crescite superiori alla media Ue. In particolare, si segnala il caso della Lombardia (+1,9% annuo), della Puglia e della Basilicata (rispettivamente +1,8% e +2,5%).

Unendo le evidenze che emergono dalla dinamica dei tre elementi contabili e applicando l’equazione 3, è possibile evidenziare come la differenza in termini di Pil pro capite che separa le regioni meno sviluppate italiane dalla media europea sia riconducibile quasi interamente al tasso di occupazione, soprattutto nei primi due cicli di programmazione nel nuovo millennio.

La produttività del lavoro, invece, durante il ciclo 2000-2006, ha inciso favorevolmente sulla riduzione del differenziale, a beneficio delle regioni meno sviluppate italiane. Infatti, come visto in precedenza, la produttività delle regioni italiane meno sviluppate durante quel ciclo di programmazione era superiore alla media di quella Ue27, periodo in cui le regioni dell’Est Europa non avevano ancora pienamente goduto dei vantaggi del mercato unico.

Nel corso del ciclo successivo tale spinta positiva ha teso ad affievolirsi, per poi diventare anch’esso, nel corso del ciclo di programmazione 2014-2020, un elemento di ulteriore allontanamento del Pil pro capite delle regioni italiane dalla media Ue. Il contributo, vieppiù crescente, della produttività del lavoro ad ampliare il differenziale fra i Pil pro capite sembrerebbe essere riconducibile in parte alle caratteristiche della struttura produttiva nazionale (imprese di dimensione più contenuta rispetto ai principali Paesi dell’Ue, spesso focalizzate su settori a più alta intensità di manodopera) e in parte alla crisi economica del 2009 e in seguito del 2011-2014 che ha colpito in modo piuttosto consistente in particolare il Mezzogiorno d’Italia.

Per quanto riguarda, infine la componente demografica, intesa come quota di popolazione in età da lavoro, essa sembra aver avuto un ruolo del tutto trascurabile nello spiegare le differenze di reddito, e dunque nella mancata convergenza, per i primi due cicli di programmazione, mentre nell’ultimo ciclo si può osservare un impatto, seppur contenuto, volto a favorire la riduzione del differenziale, che diventa però più piccolo nel 2021.

Rispetto all’impatto positivo della struttura demografica è opportuno verificare cosa accadrà con il proseguire delle tendenze demografiche in atto. Il declino demografico delle Regioni meno sviluppate produrrà un ridimensionamento della popolazione in età lavorativa e un suo ulteriore progressivo invecchiamento, che potrebbe condurre ad una crescita sistematica nei differenziali di reddito.

Si vuole perciò mostrare come l’evoluzione dell’input di lavoro per diverse regioni afferenti alle due aree del Paese (regioni meno sviluppate del ciclo di programmazione 2021-2027 e Centro-nord), condizioneranno la forbice in termini di reddito pro capite con l’Europa, ampliandola, e quindi indebolendo ulteriormente il processo di coesione territoriale.

Secondo le previsioni demografiche dell’Istat il numero dei 15-64enni nel Centro-nord si ridurrebbe leggermente fino al 2030, per poi contrarsi in misura maggiore fino a oltre 1,7 milioni di unità tra il 2030 e il 2040 (nel complesso si ridurrebbe del 7,2% tra il 2019 e il 2040). Nelle regioni meno Sviluppate italiane, la contrazione sarà di maggiore intensità già a partire dal 2020, quando il numero di abitanti in età lavorativa si ridurrà del 9% (oltre un milione di persone in meno tra il 2021 e il 2030).

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Prendendo in considerazione tali previsioni e utilizzando la scomposizione del Pil pro capite vista in precedenza, proveremo a effettuare un esercizio di simulazione che consenta di comprendere lo scenario in cui potrebbero trovarsi le regioni italiane alla fine dell’attuale ciclo di programmazione.

Più in dettaglio, utilizzando le previsioni demografiche e imponendo alcune ipotesi sull’andamento delle altre componenti, ad esempio provando a mantenere costanti tutti gli altri elementi presenti nella scomposizione del Pil pro capite (tasso di occupazione e produttività oppure supponendo che la produttività del lavoro o il tasso di occupazione crescano ad un livello simile a quello europeo), costruiremo diversi scenari così da vedere cosa potrebbe accadere alla fine del prossimo ciclo di programmazione (2021-2027) al Pil pro capite delle singole regioni italiane rispetto a quello dell’Ue.

Assumendo che le dinamiche demografiche in Italia seguano il trend delineato nelle previsioni e in assenza di interventi che incidano significativamente e positivamente sulla produttività e/o sul tasso di occupazione (ceteris paribus), la semplice traiettoria demografica calante avrebbe un impatto negativo sul Pil pro capite. Ciò determinerebbe un ulteriore e nuovo ampliamento nelle divergenze territoriali rispetto al dato europeo. Nell’esercizio di simulazione proveremo a quantificare tale fenomeno.

Ripartendo dalla formula riportata nell’equazione 3, si utilizzano le previsioni a 10 anni sul futuro demografico del Paese realizzate dall’Istat e per l’Ue da Eurostat, supponendo un tasso di occupazione e un livello di produttività sostanzialmente stabili rispetto al livello attuale. In tal modo sarà dunque possibile verificare la differenza fra i Pil pro capite nel 2030, durante il prossimo ciclo di programmazione Ue, per via della sola e semplice dinamica demografica (ceteris paribus).

Il processo di convergenza territoriale tenderà ad allentarsi ulteriormente, per via della dinamica demografica, con una crescente disparità territoriale che colpirà in particolare le regioni meno sviluppate le quali si allontaneranno ancor più dal reddito medio dell’Ue. Inoltre, vi sarà un ampliamento nel numero di regioni in transizione (quelle con un Pil pro capite compreso fra il 75 e il 100% del Pil pro capite europeo), categoria nella quale rientrerebbero anche la Liguria, la Toscana e il Piemonte.

Nella simulazione descritta in precedenza si assume l’invarianza sia del tasso di occupazione che della produttività del lavoro, ipotesi che possono essere modificate per verificare cosa accadrebbe se le regioni italiane che ricadono nella categoria delle “meno sviluppate” raggiungessero un tasso di occupazione analogo a quello dell’Ue27, se avessero una produttività del lavoro analoga a quella dell’Ue27 e se si verificassero entrambe le condizioni .

Supponendo che al trend demografico previsto si accompagnasse anche un incremento dell’occupazione tale da portare le nostre regioni al tasso europeo, il livello di Pil pro capite si innalzerebbe pressoché in tutte le regioni, al punto che nel 2030, nessuna regione rientrerebbe più tra le “meno sviluppate”; conseguentemente si amplierebbe, la platea di quelle “in transizione” (con il Pil pro capite fra il 75% e il 100%), segno di ripresa del processo di convergenza.

Meno favorevoli sarebbero i risvolti del raggiungimento dello stesso livello di produttività del lavoro registrata nella media Ue. Tale risultato è attribuibile all’esistenza di un differenziale più contenuto rispetto alla componente dell’occupazione fra il dato medio Ue e quello delle regioni meno sviluppate, per cui il beneficio che ne deriverebbe risulta essere più modesto.

Fra l’altro, come si osservava in precedenza sono numerose le regioni italiane che continuano ad avere una produttività del lavoro superiore alla media Ue27, per tali regioni non si è effettuata alcuna simulazione, lasciando inalterato il loro dato sulla produttività. L’unica regione che sembrerebbe beneficiare significativamente di questo incremento di produttività, passando dallo status di regione “meno sviluppata” a quello di regione “in transizione”, è la Sardegna. È, tuttavia, visibile un avvicinamento al Pil pro capite Ue anche per le altre regioni, sebbene non sufficiente a consentire il passaggio da una categoria all’altra.

Nello scenario migliore, in cui l’attuazione delle politiche di coesione favorisse il raggiungimento del livello medio Ue sia in termini di tasso di occupazione che di produttività del lavoro e data la dinamica demografica stimata al 2030, la piena convergenza sarebbe possibile. Campania, Puglia e Sicilia raggiungerebbero il livello medio di reddito pro capite europeo, passando così nella categoria delle regioni più sviluppate. Le restanti regioni si avvicinerebbero molto alla media Ue, pur fermandosi alla soglia della categoria in transizione (tra il 98,3 dell’Umbria e il 99,6 della Calabria il rapporto fra i livelli pro capite del Pil con quello medio europeo).

Fino ad oggi la mancata convergenza fra le regioni meno sviluppate italiane rispetto alla media europea sembra essere stata determinata principalmente dai differenziali presenti nel mercato del lavoro, in particolare in termini di occupati. Nel prossimo futuro però saranno le dinamiche demografiche previste a incidere forse anche più delle altre componenti nell’ampliare tali differenze e a rischiare di rallentare le prospettive di crescita. Tuttavia vi è una opportunità storica senza precedenti, che non va assolutamente mancata, offerta ai territori del Mezzogiorno dall’assegnazione del 40% dei fondi del PNRR, parallelamente ai fondi previsti dal ciclo di programmazione 2021-2027.

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