Lavoro, l’indagine sulle discriminazioni nei confronti delle persone LGBTQI+. Istat: “Diffuse le discriminazioni soprattutto tra i giovani”.

Secondo i dati dell’ultima indagine sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone LGBTQI+ realizzata dall’Istat, realizzata su oltre 21 mila individui in unione civile o già in unione residenti in Italia, il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali afferma che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati (retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali). Il 12,6%, ancora, non si è presentato a un colloquio di lavoro o non ha fatto domanda poiché pensava che l’ambiente lavorativo sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale.

Percentuali, ricordano dall’istituto, riferibili solamente a una piccola parte della popolazione LGBTQI+ (le persone in unione civile o già in unione), il segmento più propenso a vivere il proprio orientamento sessuale in una dimensione pubblica.

Nel 2019, il 5,1% delle imprese con almeno 50 dipendenti dell’Industria e dei Servizi ha adottato almeno una misura, non obbligatoria per legge, volta a favorire l’inclusione dei lavoratori LGBTQI+. La quota sale al 14,6% tra le imprese con almeno 500 dipendenti. Le misure più diffuse sono quelle destinate ai lavoratori transgender, in particolare la presenza di servizi igienici e spogliatoi dedicati (3,3% delle imprese).

Poco diffusi, invece, gli eventi formativi sui temi legati alle diversità LGBTQI+ rivolti al top management (1,3%) e ai lavoratori (1,2%). Solo il 2,9% delle imprese non ancora attive sul versante LGBTQI+ afferma di voler implementare tali misure o strumenti nei tre anni successivi al 2019. Stakeholder e persone LGBTQI+ in unione civile o ex-unite, intervistate nell’ambito del progetto, ritengono fondamentale un cambiamento culturale. A tal fine sostengono siano necessarie attività di formazione sulle tematiche LGBTQI+ dedicate a differenti attori (datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto iniziative più generali di educazione, informazione e sensibilizzazione da realizzarsi anche nelle scuole. Un ampio accordo viene espresso in favore di una legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, sui diritti per le famiglie LGBTQI+, tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali.

Fra gli intervistati che vivono abitualmente in Italia il 95,2% dichiara un orientamento omosessuale o bisessuale: persone gay (65,2%), lesbiche (28,9%), bisessuali donne (4,2%), bisessuali uomini (1,7%). Per il restante 4,8%, lo 0,2% dichiara un orientamento asessuale, l’1,3% un altro orientamento, la quota rimanente preferisce non rispondere.

Si tratta di un target specifico di popolazione LGBTQI+ che presenta caratteristiche particolari e un grado elevato di apertura o visibilità rispetto al proprio orientamento sessuale. La quasi totalità è costituita da persone di cittadinanza italiana, in maggioranza uomini (66,9%), individui di età avanzata (il 43,6% ha 50 anni e oltre), con una concentrazione nel Nord del Paese (61,2%) e un livello di istruzione elevato (il 38,8% ha conseguito almeno la laurea). Tale popolazione mostra una buona partecipazione al mercato del lavoro (il 77% è occupato e il 22,5% lo è stato in passato); il lavoro dipendente è la modalità di impiego prevalente e il settore terziario quello più rappresentato, in particolare tra le donne.

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Tra i lavoratori dipendenti o ex-dipendenti tale svantaggio aumenta al crescere della dimensione organizzativa (persone occupate nell’azienda/ente) e nel settore privato, così come in presenza di strumenti di diversity management, laddove politiche di inclusione sembrano portare a una più diffusa cultura e consapevolezza tra i lavoratori su tali temi.

Nel complesso, l’attitudine a vivere in una dimensione pubblica il proprio orientamento sessuale in ambito lavorativo è elevata, tanto che la stragrande maggioranza dichiara che il proprio orientamento sessuale è o era noto, nell’attuale o ultima occupazione, almeno a una parte delle persone dell’ambiente lavorativo (92,5%), soprattutto ai pari grado (84,5%).

Circa una persona su tre riporta episodi di outing, ovvero di disvelamento non consensuale a terzi dell’orientamento sessuale, mentre il 40,3% ha evitato di parlare della sua vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale.

Particolarmente diffuso è il fenomeno delle micro-aggressioni nell’attuale/ultimo lavoro legate all’orientamento sessuale, infatti, il 61,8% riporta di avere subito almeno un episodio di tale tipo da parte di persone dell’ambiente lavorativo, nell’attuale o ultima occupazione svolta. Le esperienze più frequenti riguardano l’uso di un linguaggio offensivo o dispregiativo, scherno, domande sulla vita sessuale, avance sessuali non gradite.

Diffuse le discriminazioni soprattutto tra i giovani. Una percentuale elevata (il 46,9%) delle persone in unione civile o già in unione, omosessuali o bisessuali, ha subito almeno un evento discriminatorio a scuola/università, non necessariamente in relazione al proprio orientamento sessuale. Il fenomeno è più diffuso tra i giovani (il 61,6% dei 18-34enni), a conferma della delicata fase di formazione che precede l’inserimento nel mondo del lavoro e i possibili effetti che questa può avere sui successivi percorsi di studio e lavoro.

Per quanto riguarda la discriminazione in fase di accesso al lavoro, una persona su tre dichiara di aver vissuto tale esperienza; invece, con riferimento allo svolgimento del proprio lavoro, il 34,5% dei dipendenti o ex-dipendenti dichiara di aver subito almeno un evento di discriminazione.

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Infine, il 20,8% degli occupati o ex-occupati riporta almeno uno degli episodi di clima ostile, incluse aggressioni in ambito lavorativo che vengono indicate dall’1,1% dei rispondenti. Si tratta sempre di esperienze ascrivibili a una pluralità di caratteristiche, tra cui l’orientamento sessuale. L’identità di genere viene riportata, tra i motivi per i quali si ritiene di essere stati discriminati, da una quota molto contenuta di questo segmento di popolazione.

Coloro che hanno subito discriminazioni o episodi di clima ostile in ambito lavorativo ne parlano, generalmente in maniera informale con altre persone, mentre è meno diffuso il reporting di tali eventi a organi e figure preposte.

Circa sei dei dipendenti o ex-dipendenti su 10 hanno parlato dell’ultimo evento di discriminazione accaduto con persone dell’ambiente lavorativo, più frequentemente con colleghi di pari grado (il 42,2%) e con datori di lavoro e superiori (il 24,4%), ma è soprattutto con familiari (60,8%) e amici (53,7%) che ci si confronta.

Il 10,5% ne ha parlato con le organizzazioni sindacali, il 6% con un avvocato/servizio di assistenza legale e l’1,4% con associazioni LGBTQI+. La quota di chi si è rivolto ad altri organi è residuale (0,7% al comitato di pari opportunità o consigliere di fiducia, 0,3% alla consigliera di parità, 0,2% alle forze dell’ordine).

Nel complesso, il 17,4% di chi ha subito discriminazione nell’attuale/ultimo lavoro dipendente ha intrapreso una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di azione). La percentuale sale leggermente tra chi ha vissuto invece un evento di “clima ostile” in ambito lavorativo, riguardando una persona su quattro.

Più in generale, oltre il 68,2% afferma di aver evitato di tenersi per mano in pubblico con un partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato; tale evidenza mostra la netta percezione di vivere in un contesto sfavorevole; per lo stesso motivo il 52,7% ha evitato di esprimere il proprio orientamento sessuale.

Relativamente agli ultimi tre anni ed escludendo episodi avvenuti in ambito lavorativo, il 3,1% delle persone in unione civile o già in unione che vivono abitualmente in Italia e si sono definite omosessuali o bisessuali, ha affermato di aver subito aggressioni a causa dell’orientamento sessuale; per lo stesso motivo il 3,9% ha ricevuto minacce. Le offese legate all’orientamento sessuale ricevute via web sono invece segnalate dal 13% degli intervistati.

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Imprese veicolo del cambiamento culturale, ma permane il ruolo cruciale delle istituzioni. Gli stakeholder intervistati sottolineano come le politiche di pari opportunità, inclusione e diversity management negli ambienti di lavoro siano azioni auspicabili quando non si risolvono esclusivamente con una formalizzazione di principi, ma riescono a favorire un cambiamento di tipo culturale; in tal modo si trasformano in pratiche e quindi concorrono alla costruzione di contesti di lavoro inclusivi, tali da facilitare ad esempio il coming out.

Le imprese possono essere veicolo di tale cambiamento culturale, ma per la maggior parte degli stakeholder intervistati il principale attore che deve favorire lo sviluppo di una cultura delle differenze è l’istituzione pubblica, lavorando in sinergia con altri attori (es. associazioni e network di lavoratori, sindacati), in primo luogo tramite la realizzazione di attività di formazione alle diversità.

Ciò trova riscontro nell’opinione espressa dalle persone omosessuali e bisessuali, in unione civile o già in unione intervistate. Una larga maggioranza ritiene infatti che per favorire l’inclusione delle persone LGBTQI+ nel mondo del lavoro in Italia siano urgenti attività di formazione, sensibilizzazione o campagne sulle diversità LGBTQI+ in ambiti lavorativi da parte delle istituzioni pubbliche (71,7%).

Nella graduatoria delle azioni auspicabili seguono interventi legislativi (52,6%) e azioni di indirizzo da parte dell’Unione europea o altri organismi sovranazionali (44,6%) e, con un notevole distacco, iniziative e interventi degli organismi di parità e tutela preposti (26,2%) e l’impegno sindacale (es. contrattazione, formazione delle rappresentanze sindacali, eventi e iniziative culturali) (22,2%). Meno dell’1% afferma che non è necessaria alcuna azione.

Stakeholder e persone LGBTQI+ in unione civile e ex-unite, intervistate nell’ambito del progetto, ritengono fondamentale adottare misure e azioni a carattere più generale che possano avere effetti su differenti contesti di vita, inclusa la sfera lavorativa. Attività di formazione alle tematiche LGBTQI+ devono essere dedicate a differenti attori (datori di lavoro, operatori sanitari, insegnanti, dipendenti pubblici, ecc.), ma soprattutto sono ritenute necessarie iniziative di educazione, informazione e sensibilizzazione alle tematiche LGBTQI+ a partire dalle scuole.

Ampio accordo è dato a favore di una legge nazionale contro l’omolesbobitransfobia, diritti per le famiglie LGBT+ tra cui il riconoscimento legale di entrambi i genitori per i figli di coppie omogenitoriali. Viene inoltre segnalata la carenza di leggi e iniziative a favore delle persone transgender, non binarie e intersessuali e l’importanza di una lettura intersezionale delle differenze.

Foto Copyright European Parlaiment source EP 2019, foto Dominique Hommel