Popolazione italiana, -600mila minori negli ultimi 15 anni. L’Italia risparmia sulle politiche per i giovani. 22,8% i minori in povertà relativa in Sardegna.

Da molti anni si dice che l’Italia non è un “Paese per bambini”. Niente di più vero stando ai dati elaborati da Save the Children. Dai tempi del baby boom ad oggi la rotta sembra infatti essersi clamorosamente invertita: una marcia indietro che ha travolto la curva demografica e l’ascensore sociale, sempre più in caduta libera e che rischia di trascinare il futuro delle giovani generazioni e del Paese intero.  

In 15 anni in Italia la popolazione di bambine, bambini e adolescenti è diminuita di circa 600 mila minori e oggi meno di un cittadino su 6 non ha compiuto i 18 anni. E nello stesso arco di tempo è dilagata la povertà assoluta, con un milione di bambine, bambini e adolescenti in più senza lo stretto necessario per vivere dignitosamente.  Un debito demografico, economico e soprattutto un debito di investimento nelle generazioni più giovani: tra il 2010 e il 2016 la spesa per l’istruzione è stata tagliata di mezzo punto di PIL, e si è risparmiato anche sui servizi alla prima infanzia, le mense e il tempo pieno, lasciando che, allo scoppio della pandemia, i divari e le disuguaglianze di opportunità spianassero la strada ad una crisi educativa senza precedenti.

Gioventù, foto Save the Children
Gioventù, foto Save the Children

L’eredità è un paese in cui la percentuale di Early School Leavers – cioè ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non studiano e non hanno concluso il ciclo d’istruzione – raggiunge il 13,1% (a fronte della media europea del 9,9%) e quella di NEET – giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non sono inseriti in alcun percorso di formazione – raggiunge il 23,3% (media europea 13,7%). Anche l‘ambiente in cui vivono è piuttosto compromesso: più di un minore su cinque in Italia (il 21,3% del totale) abita in città inquinate, in un Paese dove vi sono oltre 4 autovetture in circolazione per ogni minore.

La fotografia scattata nella XII edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio, dal titolo “Il futuro è già qui”, diffuso a pochi giorni dalla Giornata mondiale dell’Infanzia e dell’Adolescenza da Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro – è quella di giovani generazioni su cui non si è investito a sufficienza, che, a causa della pandemia da Covid-19, hanno perso mesi di scuola, hanno sofferto l’isolamento e la perdita di relazioni, e a cui è urgente fornire risposte concrete.

La pubblicazione, a cura di Vichi De Marchi ed edita da Ponte alle Grazie, racconta un’Italia ogni giorno più vecchia, ingabbiata nelle diseguaglianze sociali, economiche e geografiche, in cui i minori sono sempre più poveri, non vengono considerati come il capitale più prezioso per il futuro del paese, non vengono ascoltati.

Eppure ragazze e ragazzi sono sempre più interessati ad essere protagonisti della vita politica e delle decisioni che li riguardano e la pandemia sembra averli resi ancora più consapevoli della necessità di prendere provvedimenti di fronte alle sfide più significative che dovremo affrontare nei prossimi anni. Secondo i dati dell’indagine commissionata a IPSOS su “I giovani e la cittadinanza scientifica”, pubblicata all’interno dell’Atlante di Save the Children, infatti, circa 1 adolescente su 3 pensa che invecchiamento della popolazione, energia sostenibile, diminuzione delle emissioni inquinanti e diseguaglianze socio economiche, siano i principali temi che la scienza dovrà affrontare tra dieci anni. Nonostante credano nella scienza, nella maggior parte dei casi non ricevono il supporto necessario per farne un indirizzo di studi: il 15% non crede di proseguire gli studi al termine delle scuole superiori e non frequenterà l’università e il 33% di quanti invece si iscriveranno a un ateneo, certamente non opteranno per un indirizzo scientifico. E qui il divario di genere è significativo già dalle intenzioni: il 41% delle ragazze esclude a priori un indirizzo scientifico, mentre solo il 26% dei ragazzi la pensa allo stesso modo. E sono solo 8 ragazze su 100 a puntare per esempio su una facoltà di ingegneria, rispetto a 30 ragazzi su 100. Interrogati sul futuro dopo la pandemia, il 50% di loro pensa che il proprio avvenire economico rispetto a quello dei genitori sarà uguale o peggiore e il 54% afferma che anche la qualità della propria vita sarà uguale o peggiore di quella dei propri genitori.

Bambini, foto Alessia Mastroiacovo
Bambini, foto Alessia Mastroiacovo

“La crisi economica, educativa, climatica e infine la pandemia hanno reso il futuro incerto. A rimanere colpito da tutto questo è un Paese in cui la politica ha avuto sinora una visione miope, fatta di decenni di sottoinvestimento sul suo bene più prezioso, l’infanzia. Contiamo un milione e trecentomila minori che vivono senza lo stretto indispensabile per vivere dignitosamente, abbiamo la percentuale di NEET più alta d’Europa, con un esercito di giovani che non studia, non cerca lavoro e non si forma. Ragazzi che potrebbero dare tanto allo sviluppo e alla ripresa del Paese e che non sono messi in condizioni di contribuire. E non possiamo dimenticare che in questo contesto, povertà e mancanza di educazione, sono terreno fertile per la criminalità organizzata, pronta ad attrarre giovani”, spiega Claudio Tesauro, Presidente di Save the Children Italia. “Non c’è più tempo da perdere. Dobbiamo ascoltare ciò che i bambini e i ragazzi hanno da dire e renderli protagonisti del cambiamento, perché ci chiedono e si aspettano una società diversa. Il tempo delle parole è finito e ora sono necessari interventi concreti a favore dell’infanzia: solo se le risorse dedicate alla Next Generation saranno utilizzate con coraggio e mettendo al centro le giovani generazioni, le loro necessità e le loro speranze, allora non avremo perso un’occasione preziosa di rilancio del Paese”.

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La povertà assoluta – sottolinea l’Organizzazione – ha visto una crescita continua negli ultimi 15 anni, ed ha registrato una lieve frenata solo nel 2019, con l’entrata in vigore del reddito di cittadinanza. Poi, nel 2020, con l’arrivo della crisi innescata dalla pandemia, la corsa della povertà assoluta è ripresa, e su una platea di 3 milioni di individui beneficiari del reddito di cittadinanza, 753 mila sono minorenni. La povertà non è l’unico indicatore da guardare per misurare lo stato di salute dei minori nel paese: le diseguaglianze sociali, economiche e geografiche sono sempre più marcate e le opportunità di sviluppo molto diverse a seconda del luogo in cui si nasce o si cresce.

Le diseguaglianze e la povertà educativa si sperimentano infatti sin dalla primissima infanzia. In Italia solo un bambino su 7 (14,7%) usufruisce di asili nido o servizi integrativi per l’infanzia finanziati dai Comuni. Il dato molto basso cela enormi differenze nell’offerta territoriale, causa ed effetto di grandi diseguaglianze: in Calabria solo il 3,1% dei bambini ha accesso al nido, opportunità offerta invece al 30,4% dei bambini che nascono nella provincia di Trento. La spesa media pro capite (per ogni bambina o bambino sotto i 3 anni) dei Comuni per la prima infanzia è di 906 euro ciascuno, con divari che vedono arrivare la spesa a Trento a 2.481 euro e scendere in Calabria a 149 euro.

Bambino, foto Giuseppe Chiantera
Bambino, foto Giuseppe Chiantera

Né il divario riguarda solo la prima infanzia. Anche crescendo, le disuguaglianze non spariscono: in Italia solo il 36,3% delle classi della scuola primaria usufruisce del tempo pieno, con forti disparità sul territorio, con la provincia di Milano in testa, con una copertura del 95,8% delle classi, e quella di Ragusa fanalino di coda, con appena il 4,5% di copertura.

Cali di apprendimento e divari sono evidenti nell’analisi degli ultimi test Invalsi, su cui pesano fortemente i mesi di chiusura delle scuole durante la pandemia. La dispersione implicita, ovvero il mancato raggiungimento del livello sufficiente in tutte le prove, è in media del 10% nell’ultimo anno delle scuole superiori, con significative variazioni su scala regionale.  I dati INVALSI hanno, inoltre, certificato che, se la crisi complessivamente ha colpito tutti gli studenti, le bambine, i bambini e gli adolescenti che erano già in condizione di svantaggio hanno subito le conseguenze più gravi. I punteggi medi dei test in italiano e matematica, evidenziano, infatti, risultati peggiori per gli adolescenti che provengono da famiglie di livello socio-economico basso o medio basso, confermando come la DAD abbia fatto venire meno l’effetto perequativo della scuola, lasciando indietro gli studenti che per mancanza di strumenti e di aiuto in casa, non sono riusciti a stare al passo col programma.

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Le diseguaglianze sociali si traducono non soltanto in mancanza di opportunità educative per milioni di bambini ma anche nell’impossibilità di soddisfare esigenze basilari: già nel 2019 l’indagine Eu-Silc Eurostat certificava in Italia un tasso di povertà alimentare delle bambine e dei bambini tra 1 e 15 anni del 6%. Nel 2020, l’anno della pandemia, i dati sulla spesa delle famiglie con figli minorenni mostrano differenze notevoli tra quelle più ricche e quelle in condizione di povertà: al Nord la spesa alimentare media mensile di una famiglia benestante era di 913 euro, due volte e mezzo quella di una famiglia del quinto meno abbiente, che spendeva 380 euro. Al Centro la differenza aumenta e nel Mezzogiorno si allarga passando da 1267 euro per le famiglie più abbienti a 442 per quelle più povere. Per il quinto di famiglie più in difficoltà, la spesa alimentare e quella per l’abitazione, incluse le bollette, occupa la gran parte del bilancio familiare, lasciando poco e niente per spese importanti per la cultura, lo sport, la salute e per l’istruzione dei figli. Proprio su queste voci di spesa ‘educative’ e generative la forbice tra famiglie benestanti e in difficoltà si allarga drammaticamente, segnalando anche un possibile divario di offerta territoriale di opportunità legato ai luoghi in cui crescono i bambini, laddove le famiglie più povere sono più concentrate nelle cosiddette “periferie educative”.

“Con la pandemia i divari nelle opportunità di crescita si sono ampliati, non solo lungo la linea geografica nord sud, ma anche all’interno delle regioni più sviluppate, nelle grandi città come nelle aree interne, spiega Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia- Europa di Save the Children. “Quella descritta dall’Atlante è una geografia dell’infanzia che svela ingiustizie di opportunità, di diritti e di futuro. Il punto di svolta per invertire la rotta è il PNRR, combinato alla nuova programmazione dei fondi europei e alla Child Guarantee, un investimento complessivo sull’infanzia che non ha precedenti dal dopoguerra. Ma se l’impiego di queste risorse sarà volto a rafforzare solo i territori più attrezzati e verrà tutto deciso dall’alto, senza un coinvolgimento delle comunità locali e degli stessi ragazzi e ragazze, il rischio reale è quello di migliorare gli indicatori nazionali senza tuttavia ridurre – anzi aggravando – le disuguaglianze. E’ un rischio concreto, se si considerano i primi bandi sugli asili nido che hanno tagliato fuori molti territori più deprivati. Inoltre gli investimenti nelle infrastrutture previsti dal Piano vanno subito collegati ad un aumento permanente della spesa per i servizi, se non vogliamo trovarci, come già successo in passato, di fronte ad asili nido nuovi di zecca che restano chiusi per mancanza di personale. Occorre fare dunque del PNRR non un insieme di progetti, ma una nuova direzione di marcia per il paese, dove i diritti di tutti i bambini, le bambine e gli adolescenti siano messi al primo posto delle politiche”.  

Bambina, foto Francesco Alesi
Bambina, foto Francesco Alesi

I ragazzi ormai non abitano più le città ma i loro “contenitori”, come la casa, la scuola, i luoghi dello sport e quelli della famiglia. Hanno scarsa mobilità, hanno perso la dimensione urbana e vivono in una sorta di bolla di sicurezza che non li porta lontano da casa, con il rischio, per molti, di vivere segregati in periferie prive di opportunità. In Italia, sono quasi 2 milioni i minori (il 21,3% del totale) che vivono in aree inquinate e dove, nel 2020, circolavano oltre 4 autovetture per ogni minore residente. Sempre nel 2020 sono stati iscritti all’anagrafe 404.104 nuovi nati e immatricolate 1.437.259 vetture, 3,5 per ogni nuovo nato. Un dato, quello della motorizzazione privata, che va confrontato con quello relativo, ad esempio, alla disponibilità di autobus per il trasporto pubblico locale, fondamentale per la mobilità degli adolescenti, che è in media di 76 mezzi ogni 100mila abitanti. Tra questi ancora troppo pochi sono gli autobus di nuova generazione, cioè a basse emissioni. Sono conseguentemente pochissimi i bambini e i ragazzi tra i 6 e i 17 anni che utilizzano solo mezzi di trasporto pubblici per andare a scuola: poco più di uno su 4 (25,9%), con la percentuale che scende a meno di uno su 5 al Sud e nelle isole (18,6%).

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Chi cresce oggi in un mondo tanto complesso, è immerso nella comunicazione pubblica della scienza e questi mesi di pandemia hanno spinto tutti, e in particolare i più giovani, a confrontarsi con temi di divulgazione scientifica sempre più significativi nelle nostre vite. L’inedita indagine IPSOS realizzata per Save the Children sulla “Cittadinanza scientifica – opinioni e attitudini dei giovani relative alla scienza ai tempi del Coronavirus” mostra la grande consapevolezza dei giovani del ruolo della scienza. Circa 8 su 10 pensano che la scienza sia basata su dati e non su speculazioni e sia orientata al bene comune e non all’interesse di pochi. Quasi 9 su 10 pensano che studiare materie scientifiche serva a capire meglio il senso di quello che ci circonda e l’87% dichiara di apprezzare abbastanza o molto le materie scientifiche, con un maggior gradimento dei ragazzi (92%) rispetto alle ragazze (81%). Le ragioni di chi non condivide questo interesse sono molteplici: il 58% di quelli a cui non piacciono dice che sono troppo difficili, mentre il 48% sostiene di non aver mai avuto insegnanti che li hanno fatti appassionare. Quando guardano al loro futuro, tra chi immagina di proseguire gli studi, 2 su 3, il 67%, pensa di iscriversi a una facoltà a indirizzo scientifico. Solo il 7% delle ragazze vorrebbe iscriversi alle facoltà di matematica e fisica, rispetto al 16% dei ragazzi.

Ma a cosa serve studiare la scienza se non a trovare un modo per affrontare le grandi sfide che ci attendono? Oggi – secondo le ragazze e i ragazzi intervistati – i temi da affrontare per la scienza sono la pandemia (54%), la lotta al cancro (38%), lo smaltimento dei rifiuti (32%), la produzione di energia sostenibile (31%) e la fame nel mondo (29%). Ma nei prossimi dieci anni, ragazze e ragazzi indicano priorità differenti immaginando che tra i problemi più urgenti vi saranno l’invecchiamento della popolazione (33%), la produzione di energia sostenibile (32%), le diseguaglianze economiche (27%). Pensano dunque ai grandi temi, i giovani, e alla domanda su chi sentono che rappresenti meglio le loro idee per il futuro della società, la fiducia ricade sulle ONG e le organizzazioni di volontariato (35%), i movimenti come Friday for Future o Black Lives Matter (27%), meno sugli influencer (19%) e solo per il 10% su alcuni partiti politici. Si tratta di giovani che intendono impegnarsi e hanno voglia di fare, una tendenza che va al di là delle affermazioni di opinione, ma che è confermata dai dati relativi al loro impegno concreto: in Italia nel 2020 il 10% degli adolescenti tra i 14 e i 19 anni ha svolto attività gratuita presso associazioni di volontariato e la loro partecipazione civica e politica in un anno è salita dal 36,8% (2019) al 45% (2020).