La musica giovanile in Italia è morta?
Chi scrive, alcune settimane fa ha accompagnato due classi di una scuola superiore cagliaritana a Nuoro per una visita di studio. Le due ore di tragitto in bus sono state caratterizzate da continue quanto ignorate richieste di abbassare il volume di casse portatili e cellulari con cui i ragazzi ascoltavano musica…Il viaggio si è cosi involontariamente trasformato in un seminario sulla scena trap italiana fino a che uno dei professori è sbottato apostrofando i ragazzi con un vibrante “generazione di sfigati musicali”. Non ho mai amato le condanne degli adulti nei confronti dei ragazzi ma in questo caso ammetto di essermi trovato in sintonia con l’esasperato docente.
Intendiamoci, l’incapacità degli adulti di comprendere la musica giovanile non è certamente una novità dei nostri tempi. Al contrario esiste da quando si è iniziato a parlare di musica giovanile. Bill Haley, Elvis, i Beatles, gli Stones, Bob Dylan Jimi Hendrix ecc ecc. Artisti, fra i tanti, inizialmente oggetto del biasimo degli adulti e poi entrati a far parte del nostro patrimonio culturale.
La situazione nell’Italia degli anni’10, però, appare differente e più grave. Guardiamoci intorno: nessuno suona più uno strumento, le produzioni sono fatte a misura delle casse gracchianti dei cellulari, i testi sono dei copia/incolla in cui l’autoproclamatosi figo di turno si vanta del farsi la ragazza del rivale. Il tutto accompagnato da basi musicali incredibilmente ripetitive e noiose. Se il quadro è questo possiamo affermare che la musica giovanile in Italia si stia suicidando? La risposta più ovvia è si. Del resto se negli anni 90 avevamo i Nirvana e oggi Young Signorino come si può solo pensare di arrestare un declino cosi verticale?
Se tuttavia guardiamo alla storia più “antica” della musica giovanile capiamo che la risposta potrebbe non essere cosi scontata. Nell’autunno del 1955 Lonnie Donegan, un cantante scozzese di 24 anni , eseguì in un popolare programma tv “Rock Island The Line”, un brano folk americano degli anni ’20. Il brano era scarno, vuoto, in gran parte improvvisato e senza una vera e propria struttura compositiva. Niente a che vedere insomma con “Romeo e Giulietta, il capolavoro di Prokofiev composto appena vent’anni prima, con il travolgente swing di Glenn Miller degli anni quaranta o con lo stesso rock’n’roll dalle venature jazz di Bill Haley and the Comets della prima metà degli anni cinquanta. Ciò nonostante, a seguito di quella sgangherata interpretazione sorse in Gran Bretagna una miriade di improvvisate band di ragazzini che si cimentavano nel genere “Skiffle” del quale Lonnie Donegan era l’alfiere. Band nelle quali il contrabasso era ricavato da un manico di scopa innestato in una scatola da the e il tempo era tenuto grattando ritmicamente su dei lavapanni in legno. In altre parole, allora esattamente come oggi, la musica giovanile appariva come un sotto genere povero e sgradevole all’ascolto. Tra quei giovanissimi musicisti “analfabeti”, però vi erano persone come Paul McCartney, John Lennon, Jimmy Page e tanti altri artisti oggi unanimemente collocati nell’empireo della musica pop rock. Dall’iniziale scintilla innescata dalla sguaiata “Rock Island The Line” sarebbero quindi scaturiti capolavori immortali come “Strawberry Fields For Ever”, “Stairway to Heaven”, “Penny Lane”.
Ritornando quindi alla domanda di poco fa: La musica giovanile in Italia, oggettivamente brutta cosi come lo era lo Skiffle, è quindi destinata a morte certa? La risposta non la conosciamo ma non ci stupiremmo se dovesse riservarci delle piacevoli sorprese. Non è ancora giunto il tempo per i De Profundis in versione trap. Nel frattempo possiamo sempre riascoltare “Rock Island The Line”.