La barbara uccisione di Willy e il processo mediatico alle MMA.

La notte tra il 5 e il 6 settembre quattro criminali picchiano a morte un ragazzo nel corso di un banale litigio. I quattro, che hanno alle spalle numerosi episodi di violenza e micro criminalità, sono accomunati dalla pratica delle MMA, popolare sport di combattimento basato sulla commistione di differenti stili di lotta.

Per la stampa l’accostamento è immediato e inappellabile: hanno commesso il delitto in quanto appassionati di arti marziali miste. Nei resoconti giornalistici appaiono così grottesche descrizioni delle MMA, a metà strada tra “tana delle tigri” e addestramento di SS hitleriane. Un mondo di sadici, in preda a deliri d’onnipotenza e desiderosi unicamente di cagionare sofferenza al prossimo. Il fatto poi che la vittima fosse di colore rappresenta per i giornali la prova che le MMA siano una fucina di picchiatori neonazisti.

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Nel processo di pubblica stigmatizzazione, con toni improntati al più becero razzismo antropologico, vengono coinvolti anche i “palestrati” e i “tatuati”, ascritti loro malgrado al novero dei barbari indegni di una consesso civile. Il tutto ricorrendo al repertorio di cialtroneria, pressapochismo e superficialità tipico del pronvincialismo della stampa italiana.

Al contrario, che molti dei più importanti interpreti delle MMA siano atleti di colore o che alla base di questo sport vi sia il rispetto delle regole e dell’avversario nelle fasi più accese della lotta non appare in nessun articolo o quasi. Di fronte a fatti terribili come l’uccisione di Willy, è più rassicurante additare il presunto pericolo esterno piuttosto che ammettere il marcio che coviamo dentro, a prescindere che si sia o meno palestrati e tatuati.

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