La pandemia e il rischio di un’apartheid sanitaria

Com’è noto, finché non vi sarà un vaccino il coronavirus continuerà a circolare tra noi. Il quesito che attualmente ci si pone è quindi cosa fare per salvaguardare il tessuto produttivo nel caso, tutt’altro che remoto, di una recrudescenza dei contagi che imponesse la reintroduzione di misure restrittive.

Fra le varie proposte, una di quelle che trova maggiore consenso è l’istituzione di una patente d’immunità. L’idea è semplice: effettuare uno screening di massa per rilevare chi, avendo sviluppato gli anticorpi a seguito di contagio, possa continuare a lavorare in sicurezza. I dubbi della comunità scientifica sulla fattibilità della cosa sono tanti. A nostro avviso, tuttavia, la proposta solleva dubbi di ben altra natura e gravità.

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Ipotizziamo che l’operazione riesca e, nel mezzo di una nuova ondata pandemica, venga identificata una comunità di qualche milione di immuni esentati dalle restrizioni nell’interesse della collettività. Al di là di servizi essenziali e beni di prima necessità, cosa dovrebbe impedire la normale apertura di ristoranti, teatri, bar, discoteche, stadi, musei, centri estetici, cinema, se gestiti da immuni e riservati a utenti immuni? Se si consentisse agli immuni di lavorare senza restrizioni per quale motivo poi si dovrebbe impedire loro di riunirsi liberamente, andare a un concerto, fare una corsa in spiaggia? (attività che, come ci ricordano i nostri politici, è stata la causa dell’attuale ecatombe). In altre parole, cosa dovrebbe impedire agli immuni di vivere l’insieme delle relazioni lavorative, familiari, sociali che, nell’attesa indefinita di un vaccino, sarebbero vietate ai non immuni? O forse, ribaltando la prospettiva, si pensa a patenti d’immunità limitate agli ambiti lavorativi di servizi e beni essenziali, mantenendo tutte le altre restrizioni per la sola ragione che i non immuni ne sarebbero soggetti?

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Se lo scopo della proposta è favorire l’immunità di gregge, attraverso l’auto contagio di milioni di disperati desiderosi soltanto di tornare a una vita normale, l’idea è certamente ottima. Viceversa siamo di fronte a una mediocre operazione d’ingegneria sociale da anni ’30 che, se attuata, porterebbe a un regime di apartheid sanitaria. Senza dubbio una soluzione più semplice rispetto alla costruzione di un sistema sanitario efficiente. 

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